venerdì 15 agosto 2014

Hispanic trip: Albi e Carcassonne (8)

Sulla strada del ritorno verso casa, si fa sosta in Francia.
Un colpo d’occhio su altre due cittadine medioevali.
Carcassonne e Albi  hanno molto in comune,  il catarismo e la sua repressione, ad esempio.
Quello che ora le differenzia in modo radicale è il modo di vivere il centro storico.

Albi, anzi Albì 
[memento:  non c’era verso di far pronunciare alla nonna mia Piazza Cavour come si pronuncia, ovvero Cavoùr. Era sempre piazza Càvour, anzi, la verità proprio, da bambina l’ho sempre sentita dire così, con l’accento sbagliato. 
Ecco, come la nonna mia, col cavolo che riesco a dire Albì. Mi viene sempre piana, come parola]


Il centro storico è nella città. L’ospedale è a pochi passi dalle mura, l’enorme parcheggio è gratuito tranne che per poche piazzole. 
Ci sono due negozi di souvenir sulla strada di fronte alla cattedrale (e basta).
C’è un passeggio  tranquillo e rilassato.
(e anche una buonissima  panetteria che fa una quiche strepitosa)
Cattedrale di Santa Cecilia

Il palazzo della Berbie  e la Cattedrale di Santa Cecilia (la più grande  costruzione in mattoni al mondo, si dice) sono la testimonianza del potere della chiesa che s’impone sugli eretici.
Non dubito che l’effetto intimorente dovesse avere una risonanza molto più forte, nel 1200. 
Tra grattaciali e ascensori e attici, ora le altezze mica impressionano tanto, eppure la sua imponenza è ancora capace di strappare un oooohh.


La cattedrale sembra l’albero di fagioli della fiaba dark di  Jack, e fili dì erba  le casette medioevali.





Il palazzo della Berbie (bìsbia in occitano è vescovo) ospita il museo Henri de Toulouse-Lautrec.
Moltissimi schizzi, disegni, ritratti .
[che mano nervosa, che segno guizzante]
E' emozionante confrontare l’opera finita con gli studi di colore e di forma, tra cui spiccano il dipinto e le tavole preparatorie di
“Al Salon di rue des Moulins”.
[e i manifesti.
Adoro i manifesti di Toulouse Lautrec, la contaminazione con il l’arte giapponese, con il liberty]  


Nulla ad Albì è  ingessato o respingente:  sarà il timbro caldo dei mattoni rosa, la vivacità colorata del giardino inglese del palazzo vescovile, l’allegria sprigionata  da un gruppo di ragazzi che nel chiostro  di  Saint Salvy chiacchiera, fuma, beve birra, sarà per il respiro  di Touluse Lautrec che mi sta assai simpatico, o forse sarà perché la visita  di questa città cade nella  prima giornata di sole di un luglio autunnale:  Albì mi piace proprio, ecco.


Cité di Carcassonne

La citè di Carcassonne è isolata su un’altura. La sua vista da lontano è straordinaria: una vera cittadella fortificata, con bastioni e torri. 
Fiumi di turisti vengono vomitati da bus, corriere, navette.

Dame Carcas


Ci si accalca verso la porta Narbonese, accolti dalla  faccia rubiconda di dame Carcas, (la copia del suo busto, in verità)  principessa leggendaria da cui deriva il nome della città.  
Sembra  che voglia  sfottere, questa madame.
(o fottere, forse)



Dentro le mura: negozi di souvenir, ristoranti, negozi di souvenir, gelaterie, ristoranti, negozi di souvenir, ristoranti, negozi di souvenir, e ancora e ancora. 
Eccheppalle. 
Manco lo spazio per fluire nella piazza hanno le torme di turisti, dato che i tavolini e sedie (azzeccati azzeccati)  occupano quasi tutto lo spazio.

Un mercato  nel senso peggiore del termine.
Una delusione cocente. 
Una delusione da cui mi posso riprendere solo affogandomi nel cioccolato.


O nell’ultimo dolce ricordo del viaggio (lontano da Carcassonne, in Provenza, nella dolce e profumata Provenza) una squisita tarte aux pommes tiepida e croccantina accompagnata da una soffice e fresca mousse di panna con mandorle e  freddo e cremoso gelato alla mela. 
Una delizia.
Peccato si mangi  in un battibaleno. 
Finito, è già finito.
Tutto. 




Le altre tappe: 

martedì 12 agosto 2014

Hispanic trip. Paesi Baschi: Bosco di Oma, Eremo di San Juan Gaztelugatxe (7)

Nel raggio  di una trentina di chilometri intorno a  Mundaka ci sono molte località interessanti da visitare. 
Bilbao – che non ho visto – ne dista   37.
Guernica  solo 13. 
(D’obbligo la tappa nel Museo  della Pace;   in un museo del genere, molto “parlato e de-scritto”, è bene servirsi della visita guidata,  disponibile però solo in Basco, Spagnolo, Inglese e Francese, e dunque ...) 

Il bosco dipinto di Oma, ne dista quasi 17. 
Con l’auto. 
Una volta parcheggiata la macchina,  occorre camminare.
Molto.
A  250 metri dal parcheggio, il cartello con l'indicazione. 
Bosco dipinto 2,9 chilometri. 
Il sentiero, fresco, molto fresco e solitario,  è  prevalentemente in salita.
Pioviggina. 
Il terrore di un temporale che illumini il cielo nero aleggia. 
Di tanto in tanti, mentre arranco sulla salita, odo tra lo stormir del vento tra le foglie e il canto degli aucielli il passo rapido di altri visitatori. 
Pochi secondi. Il sorpasso, e i camminanti scompaiono alla vista.
Mi sento come una seicento sull'autodromo di Monza.
Un cartello nel bosco avvisa che manca solo un chilometro. 
Uff, pant, asp, pant, pant.
Un altro cartello: mancano 250 metri.
E' quasi fatta.
Solo che l'ultimo sforzo è tutto in salita, anzi, in discesa su gradoni sconnessi alti anche 70 centimetri. 
(quanti funghi sulle alzate, che peccato non saper distinguerli)
Alla fine,  eccolo. 
La magia del bosco si riverbera su di me scindendomi in due entità:





[butto  bestemmie che manco uno scaricatore di porto] 
ma cazz, pittò, era proprio necessario addentrarti con le vernici, i pennelli, la scala e tutto l’ambaradan dell’occorrente fino a sopra il pizzo della montagna? Non sarebbe stata la stessa cosa pittare gli alberi a mezzo chilometro dall’inizio del bosco?







[mi commuovo e ammiro]
Che magnifica idea. I segni dipinti sugli alberi, linee rette o curve,  formano figure al mio passaggio. Il bosco è mobile, compaiono baci e legacci, guerrieri, uomini in fuga e occhi che spiano, ed eccolo, l’occhio gigante che sovrasta tutti gli sguardi.





[inarco le sopracciglia e continuo  ad inveire]
Pittò, ma che marina, avresti potuto essere meno arronzone,  tra  tutte queste scippate di colore a botta di stenti tre o quattro fanno effetto, per il resto hai acciso le cortecce, mannaggia alla capa tua. 




[seduta per terra, piccola piccola di fronte all’esercito di occhi che mi guarda]
Che magnifica idea, Agustin Ibarrola
Hai incantato il bosco proprio al centro del suo cuore:  con un filo ideale lo hai  legato  alla grotta di Santimamine, dove ci sono graffiti del paleolitico. 
Gli uomini della preistoria e noi: loro fissavano i bisonti e i cavalli per propiziare la caccia, noi, presi dall’affanno della corsa, non riusciamo a fissare nulla, se non epifanie, attimi percepibili in uno e in solo istante, un passo oltre e il nastro, il bacio  si sciolgono, l’uomo si scompone e della sua interezza non resta più nulla, la molteplicità diventa uno e viceversa.







Mi ricompongo ritornando. 
Io, che sono un tipo da divano e ho molte riserve intorno all'arte contemporanea, non sono entusiasta, ma neanche pentita di aver fatto questa esperienza.
Magari avrei potuto mettere le scarpe chiuse e non i sandali che sono diventati, camminando sulla terra bagnata, tutt'uno con il selciato.





In questa parte dei Paesi Baschi si cammina molto. 
Da Guernica e per un lunghissimo tratto della strada statale vi è una sorta di pista ciclo-pedonabile che conduce da nessuna parte. 
(improvvisamente si ferma, così, nel nulla)
Vi camminano vecchi, grupponi di ragazzi, mamme coi passeggini,  singoli, in coppia, in comitiva.
(ma dove dovranno mai arrivare??)
Chiossape se il cammino di Santiago ci appizza qualche sasiccio.


Dal parcheggio 
Anche per arrivare all’Eremo di san Juan Gaztelugatxe bisogna camminare molto. 
Un convento costruito forse dai Templari sul cocuzzolo di un isolotto roccioso:  un nido di aquila della preghiera.
Nessun afflato mistico mi spinge, ma la terrestre voglia di osservare la costa da un'insolita prospettiva e la capacità umana, tanto umana, di essere  costruttori di bellezza.
(mica facile portare le pietre e il resto sulla cima dell’isola)

Google map non è aggiornato sulle strade basche. E neanche sugli accidenti che capitano alle strade basche.
Segnalava, l'immagine, un bel parcheggio situato ai piedi dell'isolotto, e la scarpinata sarebbe dovuta constare del tratto di  ponte artificiale che collega la terraferma all'isola e della scalinata di 250 e passa gradoni.
Sorpresa!!! 
Strada carrabile chiusa (spaccata in più punti). 
Per arrivare all'eremo bisogna prima discendere il sentiero di  montagna, poi arrivare all'ex parcheggio, e poi affrontare la via crucis degli scaloni. 
Davvero la scalinata è  segnata dalle stazioni della via crucis!
Tra chi sale e chi scende c’è sempre l’ola di saluto, l’ammiccamento e il sorriso transnazionali, come a dire su, su, ci siamo.

Però l'impresa vale la fatica.
Il paesaggio visto dalla cima dell'eremo è una meraviglia. 
Gli scarpinatori più prosaici arrivati alla meta  tirano la corda della campana apposta all'ingresso della chiesetta. 
Gli scampanellii che si sentono sulla montagna prospiciente l'isola non sono dunque i segni delle ore nè dell'invito alla preghiera, ma il segnale di chi ha compiuto la scalata:  l'eremo   ( tutto ricostruito, ho scoperto: prima sir Francis Drake e  poi  un incendio nel 1900 lo distrussero completamente) non è abitato, e l’edificio viene utilizzato come luogo di culto solo in determinate occasioni.

Straniante per chi sale sull'eremo con l'intento di farsi una preghierina (ma anche per altri vari ed eventuali come me) è il sottofondo musicale che proviene dall'interno della chiesa: la signorina addetta alla vendita di gadget (libri , gagliardetti che riproducono l'immagine di san Juan), di acqua e bibite varie, combatte noia e solitudine  con pimpanti  canzonette da discoteca.

Un gabbiano è immobile nel cielo, ali aperte.
Sembra voglia fare gara di resistenza con il vento.
Resta fermo a mezz'aria, tra il mare e il cielo, per un tempo lunghissimo.
Poi si fionda in basso, fa una risalita e riprende il gioco.
Penso che mi servirebbero delle ali per ritornare alla macchina, un puntino bianco nel folto del verde, proprio di fronte a me,  in linea d’aria.

E’ davvero tempo di ritornare, in tutti i sensi. 
Prima di andare a casa però, l’ultimo passaggio in Francia.


Le altre tappe: 



domenica 10 agosto 2014

Hispanic trip. Paesi baschi: San Sebastian, Mundaka. (6)


Cambio, cambio, ancora cambio sipario.
(e come mi piace la varietà!)
Stavolta escludo l’autosuggestione.
Il paesaggio, da Pamplona alla costa, muta  in modo radicale.
Verde, verde, ancora verde:   monti ricoperti di abeti, casarelle in stile altoatesino con tetti spioventi e soffitti bassi, microfinestrelle con imposte di legno e fioriere ai davanzali.
E un cazz di freddo.
A solo 20 chilometri dalla costa sembra di essere in Svizzera.
Pure l’Euskera, la lingua dei cartelli e delle indicazioni stradali, è così diversa dallo spagnolo, così dura, così “consonantica”, piena di K e di Z, da sembrare una lingua ugrofinnica.
(lo so, lo so, è invece una lingua “isolata”)

San Sebastian è una città grande.
La città vecchia non ha nulla del villaggio di pescatori che chiossape come si era delineato nei miei pensieri.
Gli alti palazzi,  eleganti e signorili, mi danno  l'idea di una colonia marina per  benestanti  signori  spagnoli dell’entroterra.
E a proposito di colonie, molto in voga sono quelle infantili.
Campi estivi, nella versione moderna.
Sulla playa de la Concha,  nonostante il cielo grigio e la temperatura  "freschetto andante",  davanti ai miei occhi vi sono  almeno 4 blocchi di mocciosetti  tenuti sotto rigido  controllo da giovani animatori/educatori .
Un gruppo compatto saltellante in acqua ( ma le bronchiti? i raffreddori?)
Un altro sulle scale a scuotere piedini e infilare calzini e scarpette.
Non solo sulla spiaggia, ma anche nei piccoli parchi che punteggiano la città ci sono gruppi di bambini  vocianti urlanti scalmanati e ragazzi con fazzoletti rossi o gialli o verdi o magliette monotinta  che richiamano all'ordine con voce rauca: Josééééééééééé, Mariooooo.
San Sebastian è “cresciuta”  come una città per ricchi, je pense, e rimane tale.

Di delizioso ci sono i pinchos,   delle fette di pane con sopra appoggiata la qualunque: polpo al sugo, pezzi di baccalà fritto, salumi, formaggi, pastrocchi di verdure e uova,  verdure grigliate, salsiccette, calamari e ogni altra cosa commestibile possa venire in mente.
Ne  ho visto uno con pancetta croccante, uovo piccolissimo (di quaglia?) salmone affumicato e formaggio.
(non l’ho assaggiato, troppo guazzabuglio)

La bruschetta elevata alla massima potenzialità.
Pinchos

Ma sfiziosissimo  e  unico è  il principio dell’ape e del fiore che governa la modalità di consumo del pincho: si entra in un locale, si sceglie uno o più pinchos servendosi direttamente - dal bancone al piatto - , si paga il corrispettivo dovuto per i pinchos scelti (da 1,30 euro a 5 euro per pezzo, a seconda della “copertura”),  si accompagna con un bicchiere di birra o vino, e poi si continua  provando i pinchos di un’ altra jatetxea  e poi di un'altra ancora; lunghe teorie di tabernas e di banconi stracolmi di pinchos si succedono nelle strade del centro storico, soprattutto in Kalea 31 de Agosto.
Tambasiare di taberna in taberna  fino a che l’aperitivo sostituisca il pranzo, la merenda e pure la cena.
Come l’ape con il fiore, appunto.


Mundaka  è un piccolo borgo situato  nella  Riserva della Biosfera di Urdaibai, all’estremità dell’estuario del fiume Oka.
E’ il paradiso europeo dei surfisti.
Dicono.
Dei principianti, sicuramente.
Acquattati come patelle sulle tavole, ne ho visti tanti. 

Di quelli che volano sull’onda, manco mezzo.
Non ho visto manco l’onda, la verità.
Mundaka


Invece di quelli che volano sulla tavola e basta, gli skaters, ce ne sono  eccome.
Anche sui muri.


Playa de Laidatxu


La spiaggia di Laidatxu  è una profonda lingua di sabbia che si insinua nella costa rocciosa.
(una costa frastagliatissima)
In poco tempo la bassa marea scopre  lunghe oasi di sabbia, le due rive del fiordo sembra possano essere raggiunte a piedi senza bagnarsi.
Di sera  si va a raccogliere le ostriche.
Gli scogli ne sono pieni.



Il mare entra a Mundaka e Mundaka si  protende sul mare: passerelle, piattaforme, scalette, corridoi in metallo sono stati costruiti  in più punti della costa per permettere agevolmente il passaggio in acqua.
Ma il mare, mondo boia, è di un freddo gelido.

Sull’altra riva dell’estuario  c’è la spiaggia di Laida.
Playa de Laida

Bellissima.
Chiusa da Capo de Ogono, si accoccola  la spiaggia di Laga
Ancora più bella. 
Camperisti liberi, molti gggiovani.
(cape pazze, si capisce)
Qui ci sono i anche i surfisti, quelli veri.
Al tramonto, alle dieci di sera, sembrano gabbiani.
Playa de Laga



porticciolo Mundaka
Mundaka

Piove.
Piove e le previsioni non promettono nulla di buono.
(pioverà anche domani, e l'altro domani ancora)
Dato l'aspetto scandinavo di questa zona, e il verde verde verde delle alture, mi chiedo se la pioggia non sia la costante, e non l'eccezione che come la nuvola di fantozzi perseguita me dovunque vada.



E mannaggia, come si fanno le escursioni nei boschi con la pioggia?

venerdì 8 agosto 2014

Hispanic trip: Pamplona (no, dis-grazie), Olite.(5)

Se si va in Spagna allora si va nel periodo della festa di San Firmino e si visita Pamplona (mannaggia a Hemingway!).
Eh, vai a programmare. 
Il giorno destinato a tale visita,  pronti ad andare poco dopo l'alba,  succede  che  la ruota della macchina è  completamente a terra.
(mannaggia il fuosso di ieri notte!)
L’auto è una di quelle la cui casa produttrice non dà manco  il ruotino  in dotazione,  bensì un   kit di gonfiaggio  che garantisce  la tenuta della ruota bucata per  massimo 80 chilometri di percorrenza. 
Un’ora di decodifica delle istruzioni, un'ora per eseguire il gonfiaggio. 
Altro che 80 chilometri: il taglio è una  sguarrata,  e   il  liquido del  gonfiaggio già dopo tre metri lascia la bava sull’asfalto. 
Meno male che appena fuori dal paesello ci sta il gommista. 
C’è il  gommista , ma non la ruota, che deve   arrivare da Pamplona. 
Naturalmente,  causa festa di San Fermin ( traffico,  deviazioni, divieti)  la ruota per arrivare ci impiega una giornata intera.
(l’anno prossimo nel bagagliaio al posto  delle valige ci metteremo la ruota di scorta)
Dunque, invece dell’immersione nella ressa bianco rossa dei sanfermines  (nei fiumi di vomito e immondizia, come dicono quasi sollevati i cordiali e gentilissimi gestori dell’albergo che ci ospita: Non è Pamplona, è una città diversa  -  Hemingway, mannaggiaattè!  ), si trascorre l’intera giornata  a bighellonare  a Villafranca di Navarra, avanti e indietro, tre volte il giro della chiesa; delle  2800 anime registrate all’anagrafe ne  vedo forse  una trentina, tra cui  ’o nonno, che come con  dei nipoti carissimi, si ferma  a parlare (trattenendo proprio la spalla con la mano), a raccontare:  dice  di quanto era bello il paesaggio dalla chiesa prima che costruissero le cinque casette che impediscono di guardare senza ostacoli la piana. 
In catalano. 
Tú entiendes?
(eh, insomma)
I nonnini sono sempre cari, anche quando non li si capisce. 
Dunque niente Pamplona (e neanche il piano  B,  elaborato al momento  della terribile scoperta ed effettuabile in mezza giornata). 
La riconsegna della macchina alle 18,30 obbliga ad una riduzione drastica degli spostamenti. 

Olite palazzo reale
Olite
Olite, il palazzo reale. 
Di un castello così i francesi ne farebbero cartoline a morire.  
Le  torri con le azzurre punte coniche,  le finestre che offrono prospettive  quasi labirintiche dello stesso complesso,  creano un’atmosfera fiabesca.  
E anche la vertiginosa scala a chiocciola con 132 scalini che conduce alla Grande Torre. 
[Ci sarà barbablù, in cima alla torre?]
Il palazzo, residenza prediletta di alcuni re di Navarra, una delle più lussuose dimore reali dell’’Europa tardo medioevale ( diventato poi  fortezza, avamposto militare, sede di governatori, incendiato e semidistrutto all’inizio del 1800), è stato oggetto di  imponenti opere di restauro integrativo, eppure non si ha la sensazione del  falso, del posticcio.

[Da una delle finestre della Torre dei  Quattro venti, guardo la piana fino all’orizzonte. 
Forse compariranno i cavalli, e le carovane dei pellegrini che hanno deviato il cammino di Santiago per fermarsi qui]

“Cerramos, cerramos” – la voce decisa della signorina che invita ad uscire mi distoglie dalle fantasticherie.  
Cazz, non riesco a trovare l’uscita. 
Salida, penso  sia la salita, prendo la direzione opposta. 
La signorina mi  ritrova. 
(tentativo di ammacchiarsi  nel palazzo: fallito)


La cittadina di Olite è molto graziosa. I vicoletti medievali, il chiostro antistante la chiesa di Santa Maria la Real, coi bambini che si arrampicano e fanno nascondino tra le colonne, l’accogliente piazza Re Carlo, la quiete rumorosa invitano a restare,  almeno per un po’. 
  
Ogni impedimento è giovamento, diceva la nonna mia. 
Forse è stato un bene saltare Pamplona.
(ma anche no, uffa) 
Andando verso la costa basca, la si vede  dall’autostrada. 
(è una città enorme)
Al casello, subito dopo il pagamento,  nuovo  stop. 
Una barriera di militi forniti di pistola, etilometro  e sacca piena di boccagli monouso,  accerta il tasso etilico di tutti  (proprio di tutti) i conducenti delle vetture che hanno passato il casello.  
Alle 10 del mattino.
Vabbuò, sarà  (forse) per un’altra volta. 

Ora è tempo di Euskadi.



Le altre tappe: 
8: Albi e Carcassonne



martedì 5 agosto 2014

Hispanic trip: Bardenas Reales, Navarra.(4)





Cambio sipario. 


Sull’autopista che collega Barcellona a Saragozza  un cartello indica che ci si approssima al meridiano di Greenwich. 
Un arco segna la linea immaginaria. 
Eh, capita di emozionarsi anche per una cosa simile. 
(Concretizzare le astrazioni, il passaggio  dall’Est all’Ovest)



Così come repentino mi era sembrato il mutamento di paesaggio tra Francia e Spagna, tale mi è parso il cambiamento allontanandosi da Barcellona. 
Non sottovaluto l’autosuggestione, naturalmente. Però  prevale un che di brullo, di aspro,  di roccioso; di tanto in tanto spuntano  giganteschi  tori di cartone, incuranti della loro fumettistica  realizzazione:  solo la parte anteriore della sagoma è colorata, mentre il retro, rozzo,  rivela le assi e i sostegni per tenerli fieramente in piedi.
Tori che un tempo pubblicizzavano i vini Osborne, ora la Spagna intera. 

Nelle piane, vitigni. 
Tantissimi. 
Ah, il tinto!
Poco prima di arrivare al  campo base,  un delizioso e ospitalissimo albergo a Francavilla di Navarra,  per la prima volta vedo filari di viti preceduti da piante di rose:  tutte fiorite, rosa, gialle, rosse, arancioni. 


Penso che abbiano solo una funzione estetica, eppure mi chiedo perché proprio le rose, per quanto bellissime.
Un viticoltore lunigianense che invece la sa lunga, mi dirà poi che è usanza comune (eh, vedi a frequentare solo asfalto e plastica), e che la rosa funge da campanello di allarme per funghi e malattie, in quanto come la vite è soggetta agli stessi “pericoli”.
Il primo della fila è anche il primo a “cadere” (come i soldati).


Castildetierra

Il passaggio dal caos moderno di Barcellona al silenzio esteso di Bardenas  Reales  è straniante. 
Bardenas Reales è molto di più della sua immagine/pubblicità, è molto più del Castildetierra, una montagnella che sembra assemblata con la sacca del pasticciere,   sormontata da un cocuzzolino (la ciliegina sulla torta.)
Un tempo, si dice,  c’era una statua di Madonna, sulla cima). 





Navarra, Bardenas Reales
Bardenas Reales

Bardenas Reales è uno spazio larghissimo dove i rilievi sembrano sculture modellate  con panneggi e tessiture:  una meravigliosa opera d’arte naturale.
Non è neppure il deserto che immaginavo: l’acqua sgorga dal terreno rugoso come dal nulla, improvvisa, formando pozze, acquitrini,  stagni, laghetti, fiumiciattoli. 


Nei  ruscelli  sguazzano  dei gamberi neri. 
E  la volta del cielo sembra davvero una volta, con le nuvole che si dilatano e allargano verso l'alto e si assemblano verso il basso, come se venissero inghiottite dall'orizzonte.

Impronte di animali nella crosta di argilla spaccata.


Non è possibile fotografare il mormorare del vento, nè i versi  degli animali nascosti chissà dove, nei cespugli, tra le pieghe delle rocce.
Non è possibile fotografare l’ampiezza (nessun grandangolo per  quanto professionale ci riuscirebbe), e il dilatarsi dello sguardo e del pensiero. 
E’ un pò luna,  un pò Grand Canyon, con il vantaggio che è molto più facilmente raggiungibile di entrambi. 




Ecco, visitare le Bardenas Reales ha un qualcosa di laicamente mistico: difficile comunicare con le parole. 
Quelle di un preadolescente sono state: “Mi piace questo posto, mi sento come  Bear Grylls.

Navarra, Bardenas Reales
Bardenas Reales

venerdì 1 agosto 2014

Hispanic Trip: Barcellona e Gaudì (3)

Antoni Gaudí y Cornet.

Lui, il mistico laico, finito sotto il primo tram (ahh, la modernità) e scambiato per un pezzente, chiossape se avrebbe mai immaginato di incarnare, anni dopo,  lo spirito della città. A cosa mai si ispirano i souvenir di Barcellona, le salamandre e tutti i patacchielli  coi mosaici multicolori e le guglie etcetera etcetera?
Certo ha avuto la fortuna di una committenza coraggiosa, che gli ha permesso di osare l’inosabile e di non lesinare sulla preziosità e la varietà dei materiali (penso ai Güell).

L’ aspetto di Gaudì che mi affascina di più non è il simbolismo, l’ascetismo e tutti gli ismi connessi.
E’ nella visionarietà  che  diventa concreta e che gli permette di modellare materie che sembrano poco prestarsi alla duttilità, è  l’uomo faber, che piega e torce metalli e pietre, e non soltanto per un fine estetico o etico o simbolico, ma funzionale. 
Forse per questo, tra le cose che ha fatto e che ho visto, ho trovato meraviglioso Palazzo  Güell
Così austero e cupo all’esterno, luminoso dentro per un gioco di prospettive, specchi, squarci, soluzioni tecniche e artigianali straordinarie.
L’opera di Gaudì è la prova manifesta che il bizzarro e la fantasia non sono incompatibili con la funzionalità e il senso pratico,  con l'ergonomia. ( il paradosso: il surrealismo razionalista).
Il mio sguardo ignorante  è certamente stato influenzato dalla audioguida che conduce alla scoperta degli spazi del palazzo, un percorso fatto con grande cura. 
Prezzo del biglietto pagato con grande soddisfazione.

Non altrettanto entusiasmante  è stata la visita alla Casa Batllò
Essa è straordinaria, ma  la “visita audioguidata” mi ha indisposto abbastanza.
1200 euro, il più "contenuto"
Mi hanno infastidito  il continuo richiamo al carattere privato dello spazio,  il riferimento ripetuto enne volte alla  boutique dove acquistare oggetti e mobili ispirati ai disegni originali “ ad un prezzo assolutamente contenuto “  [sticazzi, contenuto per chi?],  il prezzo esagerato del biglietto (21,5 euro),  la ripetitività e inutilità delle spiegazioni – “lasciatevi trasportare dalle sensazioni , osservate i particolari delle maniglie e delle porte … “ -  e la numerosità  dei  sorveglianti  manco ci si trovasse al cospetto del tesoro della regina lasciato privo di protezione.
(per non dire dell’orrore della foto ricordo scattata, su invito delle hostess, affacciandosi ad una finestrella del terrazzo,  come quelle che  ritraggono  passeggeri urlanti  sui tronchi  in discesa nei più cafoneschi parchi divertimento)

Del resto, i proprietari covano bene la loro gallina dalle uova d’oro, affittando per eventi le sale, il terrazzo, e tutti gli spazi “vuoti” della casa. 
Insomma, più che godere della visita (fantasmagorica è l’aggettivo più adatto  a casa Batllò), mi sono intossicata pensando che la fruizione delle opere d’arte  a queste condizioni mi pare un mercimonio esagerato.
Per motivi diversi mi sono rifiutata di entrare nella Sagrada Familia
Fare una fila mostruosa sotto la pioggia, versare 18 euro per visitare un luogo di culto??? Giammai!
Vabbuò che sono atea, e dunque mi spetterebbe pagare perché il mio interesse non ha alcunchè di mistico, e una chiesa o un palazzo reale o un museo hanno lo stesso “peso culturale”,  ma poniamo il caso che un pellegrinaggio dell’anima (marò) mi abbia condotto ad ammirare l’architetto di Dio all’opera, per sentire lo slancio e l’afflato che lo pervadeva, per innalzare sguardo e preghiera nella scala verso il cielo, è cosa buona e giusta fare una via crucis di fila, pagare,  e attendere,  una volta che ho in mano l’agognato biglietto, il turno per entrare?
(eh, perché stampigliato sul biglietto c’è l’orario di entrata, sicchè può anche capitare di fare tre ore di fila prebiglietto e due o più ore di attesa post. 
Acquistando su internet si risparmia la coda, ma si è vincolati all’orario, e metti un accidente, un incidente, un ritardo…)
Anche l’aspetto cantiere aperto, con gru e impalcature, teli e tendoni, muri in cemento e betoniere hanno contribuito, oltre alla fila alla pioggia alle questioni di principio a demotivarmi. 
(la nuova fabbrica di sanpietro e facimm a chi mette ‘acoppa.)

Anche il biglietto per entrare nell’area monumentale di Parc Güell  reca l’orario di ingresso. 
(né un minuto prima, né un minuto dopo l’arco di tempo lungo mezzora durante il quale è concesso l’accesso).
E non so quanto valga la pena, poiché la vera bellezza del parco è il parco stesso,  la  vista della città che si stende ai suoi piedi, il verde e i colonnati e le gallerie che echeggiano  dei suoni prodotti dai musicisti di strada - ma  bravi, bravissimi;  la vera bellezza è ascoltare  un violinista, un vero virtuoso,  sotto  le arcate  e tra le  colonne di pietra  ritorte come fusti di albero, tanta gente e silenzio di parole e di fiati, solo la voce vibrante dell’archetto sulle corde, un incanto. 
Però se si vuole la fotografia di rito con la mitica salamandra, l’archetipo di tutti i souvenir,  è d’obbligo l’ingresso nell’area monumentale: si fa a pugni con i giapponesi che dita a V monopolizzano la scultura, e si procede. 

Verso la Navarra.




Le altre tappe: