domenica 21 aprile 2013

Neanche una bugia


Clelia Marchi,  in un italiano sgrammaticato e approssimativo, che cede spesso il passo al dialetto, alla lingua parlata e pensata, lascia una traccia di sé, della sua vita, della sua storia e della storia collettiva e contadina su 15 chili di carte ignorate e su un lenzuolo che  è in mostra nell’Archivio Diaristico di Pieve Santo Stefano, in provincia di Arezzo. 
Il libro è la trascrizione tipografica delle righe scritte sul lenzuolo, numerate così come lo sono sul tessuto.

Quando la pausa dalla fatica contadina e un discreto benessere economico erano giunti  a pacificare un’esistenza di stenti, alla vigilia dei 50 anni di matrimonio, un incidente le aveva portato via il marito.
Gnanca na busia
Da quel momento, nelle notti insonni, aveva cominciato a scrivere.
“Quasi mi viene l’idea di dire: sarà stata la mia tristezza che m’à dato là forza di scrivere tante cose senza essere stanca anche che scrivo male! Un qual cosa c’è che mi aiuta stare sul sentiero…”
Sono memorie stropicciate e semplici, testimonianza di un tempo  in cui i bambini per scaldare i piedi gelati li mettevano  nella cacca appena sfornata dalle mucche nella stalla, un tempo in cui si veniva  bastonati dai padroni delle terre per aver preso un grappolo d’uva dalla pianta.
[lavorare la terra come bestie e non poter godere neanche di un frutto]

E’ un  tessuto fitto di pianto antico sulla fatica e sul dolore del vivere, e qui e là affiora il  rimbrotto  -  [sento la voce della nonna mia] -  per la leggerezza dei nostri tempi: 

“Tornando in dietro un passo ma cose questo andamento di vita, vogliono divertirsi niente figli sarebbe comoda la vita; ma volere abbordire per me: è come uccidere una persona, ma se tu ai un bambino di .2. anni… che ti dicono di ucciderlo diventeresti matta!!! per me cè lò stesso valore: è sempre un essere umano che sta fiorendo, perchè strapparlo così: è sempre tuo figlio come quello di .2. anni: non fatelo mamme, direte ma sai che i figli sono sacrifici!!”

Io lo capisco il bisogno della siora Clelia. 
E’ un bisogno, mi verrebbe da dire,  istintivo.
[come riempire  quindici chili di carte, o scrivere su un muro  “Pinco Pallino è stato qui”]
Scrive la siora Clelia: 
“chi legge questo libro penso che non sia da scordare come buttare un paio di scarpe vecchie ne bidone delle mondizzie, chi leggeranno queste scritte si possono rendere conto come era la vita di certe persone;”
E la sua, naturalmente, e quella di suo marito Anteo.

Non tutti i diari vengono pubblicati, non tutte le iscrizioni sui muri vengono staccate e messe nei musei e negli archivi. 
Una vita sul lenzuolo sì, e a pieno diritto, per la sua stessa originale natura. 
Sulla carta stampata non fa però lo stesso effetto. 


http://youtu.be/TKuu_IrOd6Q



martedì 16 aprile 2013

Dominicanis


Pensavo agli “esotismi”. 
Qualche mese fa  su Google maps  ho girato in lungo e in largo attorno a Timbuctù, che città straordinaria, nel mio immaginario.
Il lontano, il mille e una notte, arrivare fino a Timbuctù, come andare sulla luna stando sulla terra.
La guerra l’ha riportata  dove di fatto è. 
Nel nulla.
Un agglomerato di catapecchie e polvere e miseria, e qualche straordinaria moschea o casa di fango che resiste alla sabbia del deserto. 
(e  che deserto, mica le dune morbide su cui ondeggiano i cammelli)


Il nome Santo Domingo l’ho sempre associato al mare con le palme - i Caraibi dalle acquecristalline e le spiagge bianchissime dei depliant delle agenzie di viaggio - e ai racconti della figlia della signora Giuseppina che lì ha passato il viaggio di nozze – il primo , e forse il solo che farà mai, viaggio in aereo della sua vita, ore di terrore purissimo.
Santo Domingo non è un atollo caraibico ma la capitale della Repubblica Domenicana, mezza isola di Hispaniola.
L’isola di Hispaniola è divisa tra Repubblica Domenicana  (palme e mare, dicono le immagini, digitando  su un qualunque motore di ricerca) e Haiti (miseria e povertà, dicono le immagini, digitando su un qualunque motore di ricerca).
Le palme e il mare  s’impongono  sulle conoscenze oggettive.
Colpa di Trujillo?
Ecco, anche Trujllo. Mica il nome risuona come, che so, Pinochet. 

La breve favolosa vita di Oscar Wao, di Junot Dìaz, fa luce  su cosa fu la dittatura di Trujillo e su quali sono i codici culturali nella Repubblica Domenicana, in modo non convenzionale,  attraverso il racconto di vite (e leggende)  stra-ordinarie, e con un linguaggio agile, brioso, colorito e venato da parole ed espressioni  spagnolo-domenicane e gergo da nerd.
(i glossari in appendice sono  insufficienti, mannaggia)
 El Jefe domina sullo sfondo, assieme al Fukù, alle superstizioni, alla preghiera  e alla voglia di ribellione e di vita.
Il libro non narra solo della vita di Oscar,  che davvero è breve e favolosa, ma anche di quella di sua madre Beli (vita più lunga ma non meno favolosa), di sua sorella Lola,  della testardaggine e dell’amorevolezza dell’abuela, delle sciagure di tutta la famiglia Cabral.
Sono storie saldamente ancorate alla realtà, eppure in qualche modo trascendenti nella leggenda.
“Guardate la bambina, la bella muchachita: la figlia di Lola. Scura e veloce come il lampo: una jurona, come dice la sua bisnonna, La Inca. Avrebbe potuto essere  mia figlia, se fossi stato più intelligente, se fossi stato… Non per questo è meno preziosa. Si arrampica sugli alberi, strofina il sedere contro gli stipiti delle porte, si esercita con le malapalabras quando crede che nessuno l’ascolti. Parla spagnolo e inglese.
Non è Capita Marvel né Billy Baston: è il fulmine. 
Una bambina felice, per quanto possibile. Felice!
Ma al collo porta tre azabaches: quello che Oscar portava da piccolo, quello che Lola portava da piccola, quello che La Inca regalò a Beli quando le offrì Asilo. La potente magia degli anziani. Tre barriere contro l’occhio. Sostenute da un piedistallo di preghiera alto diecimila metri.”

Wao, come Lola e il suo ex fidanzato,  le voci che raccontano la storia,  sono  nati negli USA, ma come lo zappatore non si scorda la mamma, un dominicano anche di seconda  o di terza generazione  non dimentica di essere tale, e difficilmente riesce a staccare il cordone con un paese che più che un’area geografica è un modo di sentire, di essere. 
 (il corpo, l’ammore)
“Ogni estate, Santo Domingo mette la retromarcia alla macchina della Diaspora, strappandole il maggior numero di figli espulsi.”

Il fatto che Oscar sia un domenicano sui generis,  un super nerd  fissato con la fantascienza, che  non cucca, non  ha il fisicaccio mostruoso,  poco importa. 
(anzi sì,  importa a lui, povero tenero Oscar)
Ha la stessa inestirpabile voglia di vivere e di amare di sua madre,  dei suoi avi. 
E si trascina dietro la stessa maledizione, amare per vivere, fino alle estreme conseguenze. 

“Salve, Cane di Dio, mi salutò quando arrivai a Demarest. 
Ci misi una settimana a capire cosa cazzo volesse dire. 
Dio. Domini. Cane. Canis.
Salve, Dominicanis.”

E dunque. 
Il libro è bello e mò la Repubblica Domenicana, la vorrei visitare al di là delle palme e del mare e degli esseri umani che sono i più bonazzi del mondo,  anche  per  qualcuna delle cose che Oscar vede e fa: 
“”… dopo essersi abituato al clima torrido, alla sorpresa di svegliarsi al canto del gallo (…) , dopo essere stato in una cinquantina di locali dove, visto che non sapeva ballare né la salsa, né il merengue, né la bachata, era rimasto a bere President (…), dopo essersi più o meno abituato al surreale turbinio della vita nella Capital – le guaguas, gli sbirri, la povertà sconvolgente, i  Dunkin’ donuts, i mendicanti, gli haitiani che vendevano noccioline tostate agli incroci, la povertà sconvolgente, turisti stronzi  che occupavano tutte le spiagge, (…) le passeggiate pomeridiane sul Conde, la povertà sconvolgente, il groviglio di stradine e baracche di zinco arrugginite dei barrios populares, le folle di negri fra cui ogni giorno doveva aprirsi un varco e che lo investiva se rimaneva fermo, i sorveglianti pelle e ossa con i fucili sgangherati  davanti ai negozi, la musica, le battute sconce che sentiva per strada, la povertà sconvolgente, rimanere schiacciato nell’angolo di un concho sotto il peso di altri quattro clienti, la musica, le nuove gallerie scavate nella terra ricca di bauxite, i cartelli che vietavano l’accesso nelle suddette gallerie ai carri trainati da asini….. “

domenica 7 aprile 2013

Al Fusaro


La casina Vanvitelliana sta sul  lago del Fusaro.  
E’ una bomboniera, e le foto vabbuò, rendono l’idea ma mica tanto.
Entrarci è stato bello. 
Naturalmente, di ciò che c’era in origine all’interno non ci sta quasi niente più, fatta eccezione per  il camino,  per un grande tavolo tondo e per un affresco sul soffitto di una sala al primo piano. 
Manco il pavimento è più l’originale: le maioliche dipinte sono state sostituite con  piastrelle che ne imitano i colori e i disegni (i frammenti rimasti sono in una vetrina).
Manco il lago Fusaro, of course,  è come in origine. 
Immaginare la struttura come un casino di caccia, un punto fermo da dove sparare alle folaghe,  in mezzo al verde e al verde, e all’azzurro e all’azzurro,  l’è dura.
Però che profumo  di salsedine, sulla terrazza.
Però, se si esclude parte dello sguardo, restano le strisce del mare e del cielo, in fondo. 
(mi sento un Borbone in vacanza, in un guizzo)

A tenere aperta e visitabile la casina ci pensano dei volontari, pensionati del luogo.
Il signor Giuseppe  - ha il cartellino con il nome appuntato alla giacca – ci pedina. 
Non lo fa – voglio sperare – perché abbiamo l’aspetto dei vandali  o dei distruttori di reliquie. 
Lo fa – sono sicura – perché vuole parlare. 
Giuseppe è un bell’anziano. Fisico asciutto, capelli bianchi curatissimi, sguardo azzurro tagliente, la ragnatela di rughe che non sfigura la fisionomia. 
(Paul Newman.  Deve aver arruvutato parecchio, in un passato neanche troppo lontano,  il signor Giuseppe)
“La conoscete la storia della casina?”
Vabbuò, sì, ma  facciamo finta di no. 
“Io la conosco perché l’ho vista costruire.”
[Azz, highlander è vivo e lotta con noi!]
Ci dice due parole su Vanvitelli e sui Borboni,  sulla  fortuna della casina come location per film e telefilm. 
“I ragazzini di qua la chiamano la casa di Pinocchio. Questa è la casa della fata di Pinocchio dello sceneggiato  che fecero in tv.” 
[Non è vero. La notizia, falsa,  è falsamente riportata anche su Wikipedia.  La casa della fata Lollobrigida non è la casina Vanvitelliana. L'avrebbero dovuta truccare troppo.  La casina, dico]
Poi mette la quinta. 
“Negli anni ’70 qua era tutto chiuso, c’era il guardiano e non faceva entrare nessuno. Allora abbiamo sfondato i cancelli e abbiamo aperto la casa. Il guardiano diceva che doveva guardare, e faceva come se fosse robba sua. 
A casa  ho 3 fucili e il porto d’armi, qua siamo tutti cacciatori, ma io non vado più a caccia, a che serve uccidere un uccello e poi la moglie a casa manco lo vuole cucinare? Cammino e mi sto accorto a non schiacciare le formiche,  se penso a   quanto lavorano le formiche.
Quando ero giovane mi chiamavano scansafatiche. Non volevo zappare la terra. A 15 anni ho aperto un negozio di barbiere,  entravano e dicevano dove sta il masto? Sono io il masto.  
E poi ho fatto il portalettere, 20 anni, a Fuorigrotta. 
Nessun lavoro faticoso, eppure, non ci sono riuscito a non invecchiare.
Un lampo è stato, mi sono svegliato e mi sono fatto vecchio. Perciò dico che l’ho vista costruire la casina. Il tempo è un lampo. 
Non sono riuscito a non invecchiare, anche se ho fatto di tutto per evitarlo.”

La casina Vanvitelliana è una bomboniera, e vale la pena farci una passeggiata. 
Il signor Giuseppe è stato oggi il valore aggiunto. 

Il tempo. Il tempo è un lampo. 

lunedì 1 aprile 2013

Olezzo di pesce (d'aprile)


Mi guarda e mi dice:
- Oggi sto inzallanuto, non riesco a capire, ma come funziona?
- Cosa? 
- Vai su Google.  Ci sta questa cosa sotto, ma che è? Google olezzo. Non mi funziona, come si fa?
Apro la scheda dal mio portatile (due neocentauri, stravaccati sul divano ognuno  con il pc al posto delle gambe)
Vado su Google, clicco su Prova Olezzo Beta.


Strade parigine al mattino. 
Clicco. 
Vruuuumm, dall’immagine si levano ombre di fumo.
Riclicco.
Rocce lunari.
Vrummmm, dall’immagine si levano ombre di fumo.
Uammamà, che divertente, ma quante varianti di olezzo avranno mai pensato,  che pariantoni, e quanto tempo ci hanno messo a creare sta pagina di supercazzeggio?
Infinite varianti!!

- Ma a te funziona? Io non sento nessun odore. Ma che roba è, la pubblicità di un profumo? Ma è una presa per il culo?
Non posso contenermi.  Si può morire per asfissia da risata?
Solo dopo che gli faccio cliccare sul serve aiuto, e solo dopo che è arrivato  all’ultima riga delle indicazioni, realizza, e si assesta sul vaffan. 
(forse diretto a me, che sto ancora scompisciandomi)


E io che pensavo che ormai il pesce d'aprile fosse solo ad appannaggio dei cioccolattieri che ne fanno di ogni forma e dimensione.



Nemesi, o della vendetta, o del rimorso.

Dice il vocabolario che la Nemesi è una punizione del destino riferita a un evento o situazione che si è svolta precedentemente.
Vendetta, ripristino dell'armonia, compensazione.
Hai avuto tanto bene? E' giusto che mò te lo sconti.
(marò, io pure tengo la mia nemesi)

E però a volte si esagera.
Prendiamo un giovanotto che pure non è che sia stato chissà quanto baciato dalla ciorta.
Una madre morta nel darlo al mondo, un padre non proprio per la quale, insomma, un mezzo fetente, mai visto nè conosciuto, epperò due nonni che pur nelle difficoltà fanno la famiglia.
Mazza e panelle, tenerezze e bambagia dalla nonna, disciplina ferrea dal nonno.
Una famiglia di certo non proprio ortodossa nel panorama della buona borghesia ebrea di Newark.
(le colpe dei padri ricadranno sui figli)

Come in "Pastorale Americana", dove il protagonista è lo Svedese ma è Zuckerman a ricostruire la sua storia, in questo romanzo di Roth  il protagonista è Eugene Cantor, detto Bucky, ma è Arnold Mesnikoff che fa in modo che la vicenda di Mr. Cantor prenda forma, in incontri avvenuti molti anni dopo, nel ‘71.
Arnold era uno dei ragazzi  del campo estivo di Newark dove nel 1944 l’epidemia di polio falciò più vittime tra i bambini che la guerra mondiale tra i soldati;  il campo in cui Mr. Cantor faceva l'animatore.
Arnie era un timido, un giocatore mediocre, uno di quelli contagiati dalla polio.

Si narrava che il primo lanciatore di giavellotto fosse stato Eracle, il grande guerriero e uccisore di mostri che, ci raccontò Mr. Cantor, era il gigantesco figlio del dio supremo dei greci, Zeus, nonché l’uomo più forte della terra.
Così era visto dai ragazzini l’istruttore che insegnava a lanciare il giavellotto e a praticare ogni tipo di sport.
Le tre D: determinazione, dedizione e disciplina, e praticamente non vi servirà altro.
Così diceva, Mr. Cantor /Ercole, capace di sopportare tutte le fatiche del mondo: un semidio.
Invece esiste un nemico che colpisce e atterra più della guerra, più della polio, più di ogni altra sciagura e disgrazia: il senso di colpa.
Non esiste fardello più pesante da sostenere che quello della propria coscienza.
Manco Ercole sarebbe riuscito a sostenerlo.
(lo so, lo so. Il mio mal di testa ne sa qualcosa)

Mr. Cantor  era stato sopraffatto dal senso di colpa, annichilito dal sentimento di vergogna per il suo fallimento, che non era più soltanto quello di non essersi potuto arruolare per la fortissima miopia, o di essere stato cresciuto dai nonni perché orfano di madre e figlio di un delinquente.
Bucky aveva fatto qualcosa che riteneva ingiusto, eppure lo aveva fatto ugualmente.
Aveva commesso, lasciando Newark per raggiungere la fidanzata in un campo estivo alle Pocono Mountains, aria salubre e fresca - il morbo lontano - un terribile errore: aveva pensato a se stesso, al suo benessere.
[sticazzi, ma senza manco pensarci mezza volta ci sarei andata]
Un semidio che si allontana, come il dio dei cieli, dai destini dei suoi figli: la bestemmia verso il dio che aveva creato la polio si ritorce su se stesso, sulla freccia avvelenata che aveva sentito di essere.
L'untore.
Bucky Cantor era ossessionato dal senso di colpa, tanto da aggiungere, alla “punizione” inflittagli nel corpo dalla malattia, la punizione auto-inflitta nell’animo, condannando se stesso all’espiazione attraverso l’allontanamento da sé degli altri e la rinuncia ad ogni ipotetica felicità.

Deve trovare una necessità a quanto è accaduto. C’è un’epidemia e lui ha bisogno di trovare una ragione. Deve chiedere perché. Perché? Perché? Che si tratti di qualcosa di insensato, contingente, incongruo e tragico non lo soddisfa. Cerca invece disperatamente una causa più profonda, questo martire, questo maniaco del perché, e trova il perché o in Dio o in se stesso oppure, misticamente, misteriosamente, nel loro letale fondersi nell’unico distruttore. (…) In uno come Bucky il senso di colpa potrebbe sembrare assurdo, ma in realtà è inevitabile. Una persona così è condannata. Niente di ciò che fa è all’altezza dell’ideale che nutre dentro di sé.

Nessuno è più irrecuperabile di un bravo ragazzo che si è rovinato.

E’ quello che pensa Arnie.
E' la voce di Arnie, la cosa che forse meno ho apprezzato nel romanzo, che pure è un gran bel romanzo. 
(non lo so perchè. Forse il tono didascalico)
Arnie, che dalla malattia e dall'aumento della sensibilità verso i diversamente abili, trae invece la sua fortuna, diventando architetto specializzato nell'abbattimento delle barriere architettoniche. 
Arnie che nonostante i segni della malattia, ha una sposa e due figli dolcissimi. 
Arnie che non fa di un evento tragico il marchio per la sua autodistruzione.
Ehh, la ciorta, la ciorta.
Mi rimbombano nella capocchia le parole della nonna "aiutati che dio ti aiuta", eccerto, se non mi aiuto da sola hai voglia di aspettare. 

Mr. Cantor sembra sconfitto due volte, eppure vi è una specie di tragica grandezza nella sua autoflagellazione, nella sua autoesclusione dalla vita.
“Fai solo la cosa giusta, la cosa giusta, la cosa giusta e la cosa giusta. Mille volte la cosa giusta. Cerchi di essere oculato, di essere ragionevole, di essere premuroso. E poi succede questo. Qual è allora il senso della vita?"

E’ inutile farsi domande a cui non esiste risposta, domande che generano solo altre infinite domande. 
Ad esempio  su qual è cosa giusta.
Questo è il problema. 
Magari riuscissimo a sapere qual è veramente la cosa giusta da fare, senza dover provare rimorsi o rimpianti.