venerdì 28 giugno 2013

Calvino e Ponge: i maestri, le cose, le parole

"Chi arrivava a interessarsi a un libro diventava automaticamente schiavo della lettura. Un libro ti rimandava ad un altro libro, un autore a un altro autore, perchè, al contrario di quel che si suol dire, i libri non risolvevano i problemi ma ne creavano, di modo che la curiosità del lettore restasse sempre insoddisfatta. "

Signora in rosso su fondo grigio  -  Miguel Delibes


E così andò a finire che da Calvino, mon amour, approdai a Ponge. 

Scriveva Calvino nelle “Lezioni americane” : 

“Ponge per me è un maestro senza eguali perché i brevi testi de Le parti pris des choses e delle altre raccolte che proseguono in quella direzione, parlino essi della crevette o del galet o del savon, rappresentano il miglior esempio d’una battaglia col linguaggio per farlo diventare il linguaggio delle cose, che parte dalle cose e torna a noi carico di tutto l’umano che abbiamo investito nelle cose. Intenzione dichiarata di Francis Ponge è stata quella di comporre attraverso i suoi brevi testi e le loro elaborate varianti un nuovo De rerum natura; io credo che possiamo riconoscere in lui il Lucrezio del nostro tempo, che ricostruisce la fisicità del mondo attraverso l’impalpabile pulviscolo delle parole.”


Chi cacchio l’aveva mai sentito nominare,  Ponge.
[pongo la plastina,  pingu il pinguino di plastilina, s-ponge-bob la spugnettina, un florilegio di associazioni mentali indebite]
Persino santawikipedia, del maestro, del Lucrezio dei nostri tempi, riporta poche scarne notizie.
Eppure Calvino con Ponge ci aveva  proprio la fissa, tale da  parlarne  anche in Perché leggere i classici.

Dovevo verificare, dovevo sapere, dovevo scoprire. 
Ho verificato, ho sperimentato, ho scoperto.
Ho letto Il partito preso delle cose. 
(veramente mi è venuto il prenillo di rileggerne qualche passo, e dunque)
Scrivevo, la prima volta, che Ponge effettivamente ricostruisce la fisicità del mondo attraverso le parole.
Ne descrive la  materialità, la fisicità  in una prospettiva che esclude il dato sentimentale, affettivo, filosofico, concettuale, per concentrarsi sulla "essenza" delle cose,  inducendo l’osservatore, ovvero il  lettore-soggetto pensante, a restare sospeso e messo a parte di fronte alla "evidenza" ontologica degli oggetti descritti. 
Le descrizioni danno a forme note - acqua, candela, una giovane madre,  pane, ma anche  pietre e “ciottoli”, materia inorganica per eccellenza -  una sorta di "vitalismo" anomalo, surreale, forme vitali inserite nel grande circuito del divenire universale. 
Ponge  tenta di fondare una  sorta di "neo-naturalismo materialista" che invita a "riproporzionare" l'umanità, e il poemetto "Appunti per una conchiglia" ne è il manifesto (ed uno dei segmenti più riusciti). 
Il titolo originario del libro è "Parti pris des choses, compte tenu des mots". 
Non si può fare a meno di "descrivere" senza tener conto del linguaggio, delle parole. 

Pensiero a latere numero uno. 
Azz, i maestri (Calvino incluso).
Stima e rispetto, ma anche distacco: non esistono vestiti che vadano bene per tutte le stagioni. 

Pensiero a latere numero due.
A volte le parole non bastano, non servono, non possono dire.
Diventano pura e vuota retorica. 
Sarebbe meglio dosare le parole  con il contagocce, preferire  l’ascolto e lo sguardo silenzioso. 

E comunque. 
Riporto alcune "descrizioni" tratte dal libro  di Ponge, caso mai la curiosità…




La candela 
La notte a volte ravviva una pianta singolare il cui bagliore scompone le camere ammobiliate in cespugli d’ombra.
La sua foglia d’ora si regge impassibile nel cavo di una colonnetta di alabastro, attraverso un peduncolo nerissimo.
Le farfalle povere la assalgono preferendola alla luna troppo alta, che vaporizza i boschi. Ma subito bruciate o sfinite bella battaglia, tutte fremono sull’orlo di una frenesia vicina allo stupore.
Intanto la candela, con il vacillare dei chiarori sul libro nel brusco sprigionarsi dei fumi originari, incoraggia il lettore – poi si inclina sul suo piatto, e affoga nel suo alimento.

Gli alberi si disfano 
all’interno di una sfera 
di nebbia 
Nella nebbia che circonda gli alberi, le foglie sono loro sottratte e queste, sconcertate da una lenta ossidazione, e mortificate dal ritirarsi della linfa a vantaggio di fiori e frutti, fin dalle grandi calure di agosto già erano meno attaccate ad essi.  Nella scorza si scavano canaletti verticali attraverso cui l’umidità del suolo è portata a disinteressarsi alle parti vive del tronco. I fiori sono dispersi, i frutti vengono deposti. Dalla più tenera età, rassegnare qualità vive e parte dei loro corpi è diventato per gli alberi un esercizio familiare.

Il pane
La superficie del pane è meravigliosa prima di tutto per l’impressione quasi panoramica che dà: come se si avesse a disposizione, sotto mano, le Alpi, il Tauro o la Cordigliera delle Ande.
Così dunque una massa amorfa in stato di eruzione fu introdotta per noi nel forno stellare, dove indurendo si è foggiata in valli, creste, ondulazioni, crepe… E tutti quei piani subito così nettamente articolati, quelle lastre sottili dove la luce allunga con cura i suoi fuochi, – senza uno sguardo per l’ignobile mollezza sottostante.
Quel flaccido e freddo sottosuolo che chiamano mollica ha il tessuto simile a quello delle spugne: foglie o fiori vi stanno come sorelle siamesi saldate gomito a gomito tutte assieme. Quando il pane si rafferma i fiori appassiscono e si restringono: si staccano allora gli uni dagli altri, e la massa si fa friabile…
Ma rompiamola: nella nostra bocca infatti il pane deve essere piuttosto oggetto di consumo che di riverenza.

Il ciclo delle stagioni
Stanchi di essersi contratti per tutto l’inverno, gli alberi all’improvviso si lusingano dell’essere ingannati. Non ce la fanno più: lasciano andare le parole, un flusso, un vomito di verde. Cercano di raggiungere un infogliamento completo di parole. Tanto peggio! Tutto si metterà in ordine come potrà! Ma, in realtà, si mette in ordine! Nessuna libertà nell’infogliarsi… Lanciano, perlomeno lo credono, parole qualsiasi, lanciano gambi per appendervi ancora parole; i nostri tronchi, pensano, ci stanno per assumersi tutto. Cercando di nascondersi, di confondersi gli uni negli altri. Credono di poter dire tutto, poter ricoprire il mondo interno con parole variegate: non dicono altro che “gli alberi”: neanche capaci di trattenere gli uccelli che se ne volano via, mentre essi si rallegravano di aver prodotto fiori così strani. Sempre la stessa foglia, sempre lo stesso modo di spiegarsi, e lo stesso limite, sempre foglie simmetriche a se stesse, simmetricamente sospese! Tenta, ancora una foglia! – La stessa! Ancora un’altra! La stessa! Niente insomma che possa fermarli se non improvvisamente questa riflessione: “Non si esce dagli alberi con mezzi di alberi”. Una nuova stanchezza, un nuovo capovolgimento morale. “Lasciamo che tutto ingiallisca, e cada. Venga lo stato taciturno, lo spoglio, l’AUTUNNO”.

Il pezzo di carne
Ogni pezzo di carne è una specie di fabbrica, mulini e frantoi per il sangue.
Tubature, altiforni, vasche vi coabitano con i magli, con i cuscini di grasso.
Il vapore vi sorge, bollente. Fuochi cupi o chiari avvampano.
Ruscelli a cielo aperto trascinano scorie con il fiele.
E tutto ciò si raffredda lentamente verso la notte, verso la morte.
Avvengono subito, se non la ruggine, per lo meno altre reazioni chimiche, che emanano odori pestilenziali.

venerdì 14 giugno 2013

Gli esami non finiscono mai...

Il leitmotiv ricorrente nei corridoi, nelle aule, nel giardino e nella sala professori è “ma che la facciamo a fare questa presa in giro, è meglio che lo tolgano di mezzo, come alle elementari”.
Non è solo questione di abboffamiento da scartoffie, o di marcata  indisponibilità o incapacità a far da prestigiatori coi numerielli, ora che i giudizi sono stati sostituiti esclusivamente dai voti - non è cosa bella ammettere all’esame con una media e licenziare con una più bassa, non ammettere chi ti ha fatto schiattare in cuorpo tre anni? meglio levarsele da torno,  dopo  che abbiamo ammesso non  possiamo bocciare all’esame, che figura facciamo.

La presa di coscienza di un dato di fatto.
(una strunzata, ma che non si sappia in giro.)

Non avrebbero dovuto toglierlo neanche alle elementari: l’esame è (era) un  rito di passaggio.

Poi  capita, che tra tanti rodimenti di fegato,  Vincenzo, l’allampanato, il riluttante, lo strafottente, il ritardatario perenne al mattino perché il bar ha fatto tardi a cacciare la pizzetta , Vincenzo che nei compiti in classe al massimo  scriveva cinque righe striminzite e sgrammaticate, pressoreeeeeè, mi sfàsterio, ammesso all’esame – lui e tanti altri, come dice un collega, per santa intercessione della madonna del carmine –  sta lì seduto concentrato per tre ore di seguito, e scrive e scrive, tanto che  non credi a tuoi occhi.
Lo leggi, il compito di Vincenzo, che dentro le parole ci mette le paure e i ricordi, le ingenuità della sua età, e l’impegno e lo sforzo di utilizzare una lingua così diversa da quella parlata, e ti commuovi, e il sette/dieci che scrivi a caratteri quasi cubitali sulla facciata (maledetti indicatori!) vale più di un 10 e lode, e non puoi fare a meno di lasciare l’aula delle correzioni e andare in quella d’esame,  nella pausa tra le prove di lingue straniere, e abbracciarlo, bravo Vincenzo, e speri che faccia il bis, il ter, il quater, che non dimentichi gli elogi così plateali, così fuori luogo.

Che me ne fotte, del fuori luogo.

Nonostante gli esami, oggi sono stata felice. 

domenica 9 giugno 2013

Contr-azioni

Stamattina ho visto un video.
Questo.



Due minuti, una misura ideale per la mia capacità di applicazione e di attenzione. 
Non mi interessano le questioni di lana caprina, quanti Ammmericani e quanto Novecento, e quante arraffazzonature.
(sul Novecento è indiscutibile che in pochissimi anni ci sono stati cambiamenti che hanno modificato radicalmente la faccia del pianeta e  il modo di vivere dei suoi abitanti. 
Internet dove mancano pure le fogne e i cessi, insomma). 

In quale periodo storico ti sarebbe piaciuto vivere, mi ha chiesto una volta.
Adesso. In questo periodo. 
Dubito che sarei potuta essere Cleopatra, o una zarina, o Vittoria Colonna, in un altro periodo storico. 
Sarei stata una serva della gleba, una schiava, una contadina, un’operaia delle filande, marò. 
Meglio mò.  
Anzi, mi sarebbe piaciuto essere una nativa digitale, sarei voluta nascere un ventennio e più dopo, che figata, sarei ancora una pulzelletta.

Ho pensato a quanti mattoni ci sono dietro ognuna delle nostre più fesse abitudini, alzarsi dal letto (il letto), scendere o salire le scale, lavarsi i denti con lo spazzolino, prendere l’autobus, andare a fare la spesa – comprare l’ananas  e il mango anche in Scandinavia – telefonare per avvisare che si è in ritardo, e anche ammesso che si  voglia andare a vivere nel faro, chi non si  porterebbe  l’impermeabile con cappuccio in tela cerata per ripararsi dal vento, la tachipirina per il mal di capa?
E puta caso si voglia   rinunciare alle medicine chimiche,   le pasticchette omeopatiche,  se non le avesse preparate qualcun altro, in quanti sarebbero  capaci di prepararsele  da soli?
(all’eliminazione del dolore non rinuncio manco morta)

Non potremo mai più tornare indietro.
(la decrescita felice di sti cazzi, è proprio un’utopia di quelle con la U)

Mi ha attraversato una stranissima  duplice ossimorica sensazione: onnipotenza e impotenza. 
Onnipotente e impotente come chi si trova in cima alla scala che altri, piegando le schiena e facendo da gradino, uno sull’altro, hanno preparato affinchè potesse salirvici sopra, a guardare le stelle in avanti e il baratro alle spalle, o anche  le stelle alle spalle e il baratro in avanti.
Non mi sono guadagnata niente di quello che ho. 
Né lo spazzolino, né l’impermeabile, né la tachipirina per il mal di capa.
Se da un lato posso dominare con uno sguardo il passato - dominarlo - il futuro non  riesco  a immaginarlo, anzi, non posso che immaginarlo catastrofico.
E comunque,  qualunque cosa io faccia non potrà cambiare di un decimo di micron una beata minchia. 
Sentirmi un granello di sabbia già sarebbe qualcosa. 
E invece, dominatrice del passato,  manco quello.