sabato 30 aprile 2016

Open - Andre Agassi

Open parentesi. 
In principio furono degli occhi verdi gatteschi e una montagna di ricciolini castani. 
E fu anche la fine. 
Che vuoi vedere la pallina, c’era il palleggiatore che  occupava tutto l’orizzonte, e così prima ancora di iniziare finì la mia esperienza sportiva come tennista. 
Vabbuò, c’è anche da dire che assai controvoglia mi piegai, adolescente, al campo di terra rossa.  
Preferivo di gran lunga l’acqua clorata della piscina. 
Ma piscina e campi erano  entrambi lontani  da casa:  mammà faceva  chauffeur  per la prole, doveva  accontentarne due su tre, e dopo un paio di anni di strepiti, lacrime, mal di pancia improvvisi e sottrazioni di costumi e di cuffie dalla borsa,  i due ebbero la meglio. 
Closed parentesi. 

Odio il tennis. 
Ma per davvero, mica come dice Agassi – a chi la vuoi dare a bere – nella sua autobiografia. 
(Odio anche guardare le partite: gli spettatori sono il vero spettacolo, le cape oscillanti in un continuo no, no, no, no)
Molto prevenuta  dunque mi sono avvicinata a questa lettura. 
Da La fine, ovvero dal capitolo con cui inizia il libro,  e almeno fino alla metà del libro, sono stata presa nella rete.
Quanta solitudine, quanta inadeguatezza. 
Bisogna sforzarsi di immaginare  le star – a qualunque campo afferiscano,  letteratura  sport o cinemà – nude e fragili e insicure.  
Agassi - Open
La fama del personaggio copre  la persona. 

Ho provato compassione per il bambino Andre privato dei giochi e costretto a palleggiare per ore con il drago, diabolica invenzione di un padre che rovescia nel proprio figlio le proprie ambizioni di successo. 
Ho provato  orrore per il regime carcerario della Bollettieri Accademy e simpatia per l’adolescente Andre finto ribelle, per i suoi innocui moti di protesta. 

Quando si dice un bravo ragazzo. 
Troppo bravo ragazzo. 
Così bravo ragazzo da iniziare la  relazione   con Brooke Shields (solo perché caldamente suggerita) via fax.   
Così bravo ragazzo – ragazzo  per modo di dire, a 29 anni! – da necessitare del sostegno dell’amico sensale per avvicinarsi a Stefanie Graff. 

Poi è cominciata la parabola discendente. 
La parte finale del libro mi ha ammorbato, sia per il quanto è bravo e quanto è altruista e quanto è generoso  -  ma che bella iniziativa la scuola Agassi (e ancora devo capire il senso del racconto della mancia che lascia al posteggiatore il suo rivale Pete Sampras,  anzi, la verità l’ho capito e mi pare proprio un inserto meschino) sia per la cronaca puntuale di tutti gli incontri, set per set, servizio per servizio, punteggio per punteggio. 
Uno sfracello di palline. 

Un libro che è  davvero  autobiografico: inizia bene, si piazza benissimo, ma quando sarebbe il caso di  ritirarsi continua, continua, fino allo spappolamento della colonna vertebrale. 


venerdì 8 aprile 2016

Dall’astrattismo alla critica astrattista. Il critico d'arte e gli altri cinquantanove racconti di Buzzati.

Buzzati, Buzzati.
Che ne so io di Buzzati, dopo aver finito di leggere  i Sessanta racconti e oltre alla vaga reminescenza de Il deserto dei tartari letto nel cenozoico e a non significativi cenni biografici?
Niente.
Sarebbe il caso di studiare, di cercare, di andare oltre la semplice lettura dei racconti , poiché così, a sentimento, quasi tutti mi hanno ispirato collegamenti anche arditi, arditissimi.
[Ma poiché non devo fare esami e non mi devo sottoporre a nessuna valutazione, non devo tenere seminari e manco una lezione, anche stavolta passerò oltre, o cazzeggerò invece di approfondire]

Buzzati - Il critico d'arte
Il filo rosso che lega tutti i racconti, pure nella varietà e nella multiformità, è una vena di inquietudine.
Quasi tutti sono ricoperti di un sottile velo di disfatta, sia che parlino di storie d’amore , sia che raccontino di epidemie che colpiscono le automobili.
Non mi soffermerò su tutti i racconti,  e neanche sui miei preferiti che sono, in ordine di apparizione, "L’assalto al grande convoglio"
 "Sette piani"
 "Il borghese stregato
"Sciopero dei telefoni" - una vera chicca, nel quale vi è anche l’intuizione del potere delle chat "E ciascuno credette di parlare con donne giovani e bellissime, ciascuna si illudeva che dall’altra parte dei fili ci fossero uomini di magnifico aspetto, ricchi, interessanti…"
"Grandezza dell’uomo".

Ma qualche parulella almeno sul racconto Il critico d’arte, non solo perché è un’arguta e ironica riflessione sullo strapotere della critica e sul rapporto tra codice artistico figurativo e sua transcodificazione nel linguaggio, ma anche per altri rimandi.

Il critico d’arte è Paolo Malusardi che alla Biennale, davanti alle opere di Leo Squittinna, ha uno sbandamento: il nome gli ricorda vagamente qualcosa, i suoi quadri non gli dicono invece proprio nulla.
S’incorna e rischia: decide comunque di scrivere un articolo, sperando di rivelarsi scopritore di talenti passati inosservati, e far così schiattare di invidia i colleghi.
(quali nobili intenzioni!)
Cosa dire, però.
Potrei dire che Squittinna è un astrattista. Che i suoi quadri non vogliono rappresentare niente. Che il suo linguaggio è un puro gioco….

Poi l’illuminazione: far nascere dall’astrattismo una critica astrattista, infrangendo tutte le catene del linguaggio.

“"Il pittore" scrisse, padroneggiato da un incalzante raptus”di del dal col affioriccio ganolsi coscienziamo la simileguarsi. Recusia estemesica! Altrinon si memocherebbe il persuo stisse in corisadicone elibuttorro. Ziano che dimannuce lo qualitare rumelettico di sabirespo padronò. E sonfio tezio e stampo egualiterebbero nello Squittina il trilismo scernosti d’ancomacona percussi. Tambron tambron, quilera dovressimo, ghiendola namicadi coi tuffro fulcrosi, quantano, sul gicla d’nogiche i metazioni, gosibarrre, che piò levapo si su predomioranzabelusmetico, rifè comerizzando per rerare la biffetta posca o pisca. Verè chi…

Chiossape, mi sono chiesta, se Fosco Maraini e le sue fànfole….

E mi sono chiesta anche quanta laicità vi sia in Buzzati: pensando ai racconti "Il cane che ha visto Dio", "I reziari", "L’uomo che volle guarire", "24 marzo 1958", "Le tentazioni di Sant’Antonio", "Il disco si posò": mi è sembrato molto presente un sentire religioso, ma più che come anelito, come ingombro.

Un altro motivo di inquietudine, tra i tanti senza forma e senza nome che popolano i sessanti racconti.

sabato 2 aprile 2016

Se ti abbraccio non aver paura - Fulvio Ervas

A volte un libro diventa importante non per come dice e neanche per cosa dice, ma perché diventa strumento.
O esempio.
"Se ti abbraccio non aver paura" è uno di questi libri.

Fulvio Ervas racconta l’esperienza vissuta da Franco Antonelli e da suo figlio Andrea.
Un padre e un figlio on the road, in un viaggio che dura molti giorni, senza programmi, alberghi, prenotazioni.
Un coast to coast, dalla Florida, punto di partenza, fino al Pacifico, con tante deviazioni e ancora in Messico, Guatemala, Belize, Costarica, Panama, e Brasile.
Senza meta e senza obiettivo, a tentoni, spinti da imprevisti, costrizioni o meravigliose scoperte.
Così come è la strada della vita che Franco percorre con suo figlio.
Quanti figli desidererebbero un’esperienza così? E quanti padri?

Ma Andrea è autistico.
Il deserto entra ed esce dai miei pensieri. L’associazione tra deserto e autismo è immediata. La scarsità di relazioni, l’apparente monotonia. Il silenzio. L’essenzialità. La vita che si fa strada sgomitando, distante dall’esplosione delle foreste, infilata tra la sabbia, dentro le fessure delle rocce, che non disdegna mimetismi, adattamenti estremi, che accetta di perdere parti di sé pur di resistere.”

Per entrare nel deserto di Andrea ho provato tante volte a imitare i suoi gesti: saltare sul posto, sfregare forte le mani con il suo ritmo, correre da un punto all’altro e tornare subito indietro, guardare sbilenco.

Ho provato emozioni molto forti e mi sono sempre dovuto fermare perché arrivavano lacrime così grandi che non si possono trattenere.

Dell’autismo non si conosceva nulla fino alla metà degli anni ’50 del secolo scorso.
Dell’autismo si conosce pochissimo ancora oggi.
Non si sa perché accade, non si sa che cosa siano l’ecolalia, i gesti scomposti, le ripetizioni, i comportamenti strani.
Dell’autismo non conoscevo nulla se non la versione patinata (e platinata) interpretata da Dustin Hoffman in Rain Man.
Dell’autismo ora so, perché ho avuto N., e altri ragazzini autistici sono nella mia scuola.
E’ difficile, molto difficile entrare in contatto, intuire i bisogni, riuscire a immaginare i sogni.

Sono un uomo imprigionato nei pensieri di libertà.

Andrea vuole guarire.
Ciao.”

E’ uno dei biglietti che Franco si porta dietro nel viaggio, un biglietto scritto da Andrea sotto la guida della madre.
Io non so quanto di Andrea ci sia in questo messaggio. Quanta consapevolezza del senso delle parole.
Mi chiedevo, guardando il mio N. , quanto c'era di suo in quello che scriveva al computer  e quanto invece era   prodotto di ciò che noi volevamo che lui scrivesse.

Ecco, è tutto bello per lui. È solo una meccanica ripetizione? Oppure significa che ciò che riesce a filtrare e ricomporre lo apprezza talmente da percepire la magnificenza di ogni scheggia dorata che arriva dal mondo? Io voglio illudermi che sia così.”

Io voglio credere che sia stato così il viaggio per Andrea, che sia così la sua vita.
Anche se molto lontanamente, posso comprendere ciò che prova un padre (una madre).
Ci vuole un coraggio enorme a intraprendere un viaggio come quello che hanno fatto insieme Franco e Andrea, contro il parere dei medici, contro la convinzione che le novità “destabilizzino” ancora di più gli autistici.
(mi si stringe il cuore quando vedo l’educatrice premere G.. sulle spalle, sotto il collo, quando la vedo guidarlo come un burattino, mentre G. vorrebbe correre e correre. )

Franco e Andrea hanno fatto un’esperienza bellissima.
Difficile, ma forse non più difficile dell’affrontare la vita quotidiana.

Ho capito che non avrei vissuto con un continuo pianto senza lacrime, con una smorfia o con un ghigno. Davanti a questa prova della vita avrei imparato a sorridere: l’avrei affrontata con fatica, ma anche con responsabilità, con intenzione. Con positività. Non sarei rimasto lì a inghiottire vicoli ciechi in salsa di palude.”