martedì 25 novembre 2014

Camera con vista

La storia, portata sugli schermi cinematografici un bel po’ di anni fa – lo vidi, quello lo vidi - , è nota. 

Il viaggio in Italia  è fatale alla giovinetta inglese Lucy,  accompagnata dalla sua chaperon,  la zitella adulta (destinata per sfioritura del corpo sacro intoccabile a inacidirsi oltre ogni misura e a porsi come colonna d’ercole a difesa della purezza della giovine a lei affidata),  perché tra le mollezze dolci della primavera, l’arte e la Vita – pulsioni elementari, un assassinio e un bacio rubato  –  avverte   un turbamento. 
Uno scossone ai saldi formalismi  vittoriani (post). 

Il  ritorno in Inghilterra è segnato dal fidanzamento con un ottimo partito, un londinese colto, saccente e sprezzante verso la borghesia campagnola del Surrey (a sua volta sprezzante e saccente verso i parvenu, gli impiegati, i lavoratori in generale. Che si innalzino barriere a tutela della propria classe sociale e della propria educazione, prego). 
Ma il caso, il destino, il fato, la mano burlesca dell’autore fanno sì che Lucy incontri di nuovo l’uomo che l’aveva violata nel bosco di viole  - violata tra le viole! -  che “correvano giù a rivoli, turbinando intorno ai tronchi d’albero, raccogliendosi in pozzi dentro le conche, coprendo l’erba di macchie di schiuma azzurra.”, tale da farle ingaggiare una lotta titanica tra il dovere  - sposare il turzo di pennello, rinunciare al richiamo della primavera/vita  - e il piacere – svincolarsi dal lacci, seguire l’istinto e non le convenzioni. 
Lucy “non si sarebbe mai sposata. (…) Doveva diventare una di quelle donne che aveva lodato con tanta eloquenza, che danno peso alla libertà e non agli uomini.
Ma era un’altra menzogna, una menzogna interiore. 
Lucy non avrebbe mai potuto farlo, non era questo ciò che le interessava veramente. 
Naturalmente c’è il lieto fine, come nei romanzi d’ammmore più classici: lei rompe il fidanzamento con il signorino e grazie all’intervento al padre del “violatore”,  sposa  il di lui figlio.  
Vabbuò. 

Fermandomi alla trama,  o alla “introspezione” dei personaggi  – detestabili e irritanti tutti , ma tant’è, come si fa la critica sociale all'Inghilterra  se non si accentua la pedentaria e la pochezza delle sue madri e dei suoi figli? –  avrei dovuto piantare il libro in soffitta, o nel cesto del riciclaggio. 
Il quadro culturale, impregnato di  bacchettonismo e intolleranza  - è sconveniente, è maleducato -  restituisce l’immagine di una galera. 
Una prigione dell’anima. 
[Un’irritazione continua.] 
E come sempre, gongolo per essere nata  in questo tempo.

Però qualcosa  del libro  mi ha intrigato. 
I luoghi, gli spazi. 
Quelli chiusi – stanze,  case,  pensione Bartolini – v/s quelli aperti –il bosco di viole, il laghetto sacro, le colline. 
Quelli estranei – Firenze, Londra – v/s quelli familiari – Il Surrey, Windy Corner.
Il modo in cui vivono l’Italia gli inglesi, anche.
(o la Grecia e  la Turchia )
L’idea dei luoghi, più che i luoghi in sé.

(I pensieri al riguardo sono troppo vaghi per essere verbalizzati. 
Sento che la questione dell’ habitat, non solo inteso come comunità umana,  conta. 
Conta moltissimo. 
Quanto vorrei avere una finestra che affaccia sul mare.)

mercoledì 5 novembre 2014

Formiche, oca blu e surrealismi altri.

Quando penso al surreale in letteratura, subito mi vengono in  mente  le dichiarazioni di intenti di Breton.
Hanno forse qualcosa di giocoso? 
Minchia no. 
E anche la sua letteratura è di una pesanteria che haivoglia, mille volte meglio  la banalità del quotidiano. 
(non a caso il signor Raimondino Queneau lo prendeva per i fondelli)

Vian, l’altra faccia del surrealismo,  di certo non dissemina gocce di serenità. 
Anche il suo romanzo più brioso e felice, La schiuma dei giorni, ha un epilogo tristissimo. 

Boris Vian - Le formiche
Nei racconti della raccolta Le formiche,  la disperazione  e la presenza del Destino cieco (spesso rappresentato da un Maggiore con un occhio di vetro)  che frantumano  speranze e vite sono i veri protagonisti.

Il surrealismo di Vian ha una  cifra particolare, però. 
Per quanto cupissime e nere, le sue “narrazioni”  hanno sempre qualcosa di “destabilizzante” in senso umoristico. 
(Un humor nero. Non è forse umoristico suicidarsi tagliandosi la testa  che duole e metterla a bollire nel pentolone per ripulirla?)

E poi c’è la straordinaria  carnalità delle invenzioni:  attraverso la trasposizione di  referenti che si accostano in modo inconsueto,  Vian riesce   a rendere la “sensazione” tattile ancora più efficace che non  attraverso una rigorosissima e ordinaria “interpretazione”. 
Ad esempio, come rendere meglio il contrasto dal passaggio tra l’aria viziata  di una sala cinematografica e il frizzante  dell’aria notturna se non così?

Peter Gna uscì dal cinema con sua sorella. L’aria fresca  della notte, aromatizzata al limone, era un gran bel sollievo, dopo l’atmosfera della sala, dipinta di blu muffa di gorgonzola – se ne avvertivano gli effetti.

"Le formiche" è uno solo degli 11 racconti della raccolta: una visione altra, scanzonata e pulp, fino alla pagina finale, dello sbarco di Normandia. 
Potrei farne l'elenco e la sintesi, ma perdinci, che noia. 
Però una menzioncina per quello che mi è piaciuto più più di tutti, nonostante la disillusione finale, la voglio fare. 
L’oca blu. 
Una storia di amore e di pali in fronte. 
Vian è una potenza  nel dis-piegare gli effetti dell’innamoramento.