lunedì 28 aprile 2014

Il cielo nevica

Un qualche sospetto  mi era sovvenuto, leggendo l'ultimo libro di Alberto Capitta, Alberi erranti e naufraghi, vincitore del premio Brancati,  ed ora  che ho letto il suo primo romanzo ne ho avuto conferma.  
A Capitta non interessa  la storia, intesa come intreccio, viluppo di situazioni,  vasta articolazione di trama.  
Semplificando, ma semplificando assaissimo, a Capitta non  interessa il "romanzo",  ma la “poesia”.  

Capitta, il cielo nevica
Norma e Domenico sono madre e figlio. 
Sono molto legati, quasi complici.
Del padre Domè non sa nulla. La madre con figlio piccinino al seguito dalle montagne del continente si trasferisce a Caprera,  dove acquista la fama di strega.
Raccoglie le erbe e le conchiglie, ha un occhio nella gola e vede, come suo figlio, i vicini di casa trasformarsi in animali.
Norma è gelosa della terra che Domè ha avuto in concessione dal Compendio Garibaldino e che  “alleva” come un figlio.

Auscultò il respiro profondo della terra, recepì dalla pianta dei piedi il concitato tramestio delle materie organiche in disfacimento sotto di lui quando esse si frantumano, per riapparire  sotto la spinta ossessiva della rigenerazione, riformulate in bacche e germogli.

Domenico è geloso delle attenzioni di Centogalli, che s’innamora di sua madre.
Norma è gelosa della puttana di cui si innamora suo figlio.
Il loro legame, che li rende monadi nella comunità isolana, isole nell’isola,  ha qualcosa di morboso, di eccessivo.
Dopo grandi litigi e  grandi spaccature,  e dopo anni di vite separate,   è al nido, alla madre che Domenico  ritorna.

I figli sopravvivono di solito ai genitori.
Ma quando i figli non sono altro che  ombelichi, e non frecce scagliate dall’arco, cosa resta “dopo”, se non un’immensa solitudine, così grande da creare fantasmi e fantasie,  così grande da  evocare addirittura Garibaldi con tanto di divisa e mantello, un Garibaldi con cui dividere i pasti e le corse sull’Ape rimontata?

Quante volte la vita si riduce a una semplice sfilata di carri in fila indiana carichi di facce  e odori, donne, letti, bare culle, prati? Ma fermarsi alla memoria è troppo poco se non ci sono più strade da ricondurti a una ragione originale, se sei così solo da cercare in ogni suono e in ogni fraseggio una prova della tua esistenza. Domenico esiste nella luce gelata dalla tazza all’albero. Solo questo.”

Tuttavia, l’osso del racconto non è la storia di Domenico e di Norma. La loro storia è l’epidermide.
L’osso, lo scheletro del racconto è nello stile, nella “forma”,  nelle metafore e nelle sinestesie  e metonimie ardite, nello slittamento di piani da quello umano a quello vegetale o animale o a quello meccanico e viceversa, nella creazione di immagini evocative come  in questo passo che descrive l’innamoramento del comandante Centogalli :

Il comandante s’era invaghito di quell’essere tellurico in una vampata estiva, durante una notte in cui tardava a prendere sonno sul Cucciolo cullato dalle onde. Il vecchio barcone s’era sentito drizzare le barbe del fasciame ai tanti sospiri amorosi. In punta di chiglia aveva disegnato corolle sull’acqua, s’era ravviato il cordame, gonfiati i propulsori, spruzzato di colonia i cespi d’alga a prua. Al mattino aveva dischiuso il boccaporto e il vecchio Centogalli ne era emerso, stordito dai vapori di Norma, con una luce nuova negli oblò.

O in questo, in cui Norma sente avvicinarsi la morte:

Si sentì invasa di freschezza, si sentì la carne incisa e inumidirsi e aprirsi l’occhio in gola che perlustrò la spiaggia e i coni d’ombra andando a soffermarsi infine sul soffitto del cielo illuminato dalla collana di rune partorite dal cuore. Dalla gola Norma vide la vita incendiata dalla morte, il mare dei defunti popolato di pesci miniati come necrofori di ametista, vide il topo dal crisantemo in bocca voltarsi ad osservarla dalla cima di un promontorio dello stomaco, razzolarle tra le valvole e i detriti, rovistarle le latrine del duodeno.”

Mi piacciono i giochi formalistici, e non posso non riconoscere a Capitta una scrittura originale, di effetto.
Tuttavia,  non posso neanche negare che alla lunga mi sia sembrata  un poco stucchevole.
Gli eccessi  talvolta portano ad una perdita di senso. 

Prosa o poesia, è sempre una  questione di misura.

giovedì 24 aprile 2014

La mia famiglia e altri animali

Gerald Durrell, la mia famiglia e altri animali
Questa è la storia dei cinque anni che ho trascorso con la mia famiglia nell'isola greca di Corfù. In origine doveva essere un resoconto blandamente nostalgico della storia naturale dell'isola, ma ho commesso il grave errore di infilare la mia famiglia nel primo capitolo del libro. Non appena si sono trovati sulla pagina, non ne hanno più voluto sapere di levarsi di torno, e hanno persino invitato vari amici a dividere i capitoli con loro. Soltanto con immensa fatica, e usando una notevole astuzia, sono riuscito a salvare alcune pagine sparse che ho dedicate esclusivamente agli animali. Nelle pagine che seguono ho cercato di dare un quadro preciso e tutt'altro che esagerato dei miei familiari; essi sono rappresentati come li vedevo io.
Per spiegare alcuni dei loro tratti più strambi, comunque, mi sento in obbligo di precisare che nel periodo in cui stemmo a Corfù eravamo tutti molto giovani: Larry, il più grande, aveva ventitré anni; Leslie diciannove; Margo diciotto; mentre io ero il più piccolo, avendo appena toccato il tenero e impressionabile traguardo dei dieci anni.” 

Voglio proprio sperare che La mia famiglia e altri animali sia  l’autobiografia romanzata di Gerald Durrell, illustre naturalista,  altrimenti davvero ci sarebbe da chiedersi come si possa sopravvivere  - meglio  una giungla - ad una famiglia scumbinata come quella descritta dall’autore, o come possa una famiglia normale sopravvivere alla passione naturalistica di un ragazzino come Gerry. 
Margo è una fissata dell’estetica e dell’ammore in ispecie quello fou e disperato. 
Leslie un appassionato di armi, caccia e truculenze. 
Larry uno spocchiosissimo e supersaputello intellettualoide.
La madre una svampita debole appassionata di cucina e di giardinaggio. 
Gerry, il protagonista,  che nel lasciare l’Inghilterra per Corfù  si porta dietro solo ciò che ritiene utile ad alleviare la noia del viaggio, ovvero: “quattro libri di storia naturale, un acchiappafarfalle, un cane e un barattolo per marmellata pieno di bruchi tutti in pericolo imminente di trasformarsi in crisalidi”, riempie le case e le ville che abitano a Corfù di bestie e bestiacce, e mica è una bella cosa trovarsi dei serpenti in vasca da bagno affinchè si rianimino, ad esempio, o un gabbiano che mozzica manco una tigre sotto il tavolo, o  branchi di scarrafoni,  pipistrelli e gufi  e gechi addomesticati che svolazzano e si muovono in ogni angolino.

E’ un romanzo venato di quel tipico umorismo inglese che a me fa un po’ lattuginare le ginocchia, un romanzo dove brilla per intensità  la meraviglia per ogni aspetto della fauna e della flora, trattata di certo con maggiore rispetto e poeticità rispetto alla componente umana,  sia familiare che autoctona, a cominciare dal tuttofare Spiro e finendo ai contadini e pastori, ritratti nell’indolenza, nell’ignoranza e nella rozzoneria.

«Incidente?» disse Spiro beffardo. «Io mai ho incidente. No, era di nuovo i meteorismi».
«I meteorismi?» disse mamma un po' perplessa.
«Sì, io prendo sempre i meteorismi a quest'ora» disse Spiro con aria seccata.
«Non dovrebbe vedere un dottore, se ha questo fastidio?» suggerì mamma.
«Un dottore?» ripeté Spiro meravigliato. «Per che fare?».
«Be', i meteorismi possono dare molti disturbi, sa?» precisò mamma.
«Disturbi?».
«Sì, se uno li trascura».
Spiro si accigliò un momento, pensieroso.
«Io dico i meteorismi dell'aeronautica» disse infine.
«I meteorismi dell'aeronautica?».
«Sì. Li porto a casa, a quest'ora».
«Ma lei vuol dire i meteorologi dell'aeronautica!».
«Ma sì, è quello che io dico» proruppe Spiro indignato. “

Ecco. 

Certo che deve essere stato bello  trascorrere un’infanzia così, brada,  una full immersion nella natura senza tuttavia trascurare la cultura, perché  l’inglesino Gerry doveva essere  educato  dai precettori e insegnanti privati, non greci, ovviamente, quelli  potevano  ricoprire  il ruolo di pastori e contadini o tutt’al più domestici o servitori tuttofare  o funzionari doganali con scarse competenze. 
(Poveri greci, trattati con la sufficienza di chi si ritiene comunque al di sopra,  col piglio del colonizzatore verso i  popoli inferiori e incivili.)
Certo che deve essere stato bello cambiare casa solo perché una è troppo piccola per ospitare un esercito di amici, e servirsi dell’aiuto indefesso di chi ti trasporta le valigie e i servizi di cristallo (si buana, va bene buana). 
Però  questi sono solo pensieri a latere, piccoli sbuffi di personale insofferenza. 
Forse dovrei evitarli, dato che nel libro  lo sguardo vuole essere quello di un bambino che delle cose dei grandi non ne capisce un granchè, e neanche delle cose dei piccoli.
Di  altri bambini non c’è traccia.

Gerry  Durrel,  nei 5 anni che trascorse a Corfù, ebbe come  amici  insetti, cani, pesci e uccelli, e la sua vera casa fu il mare, il  cielo e la terra.

Le albe erano pallide e traslucide finché non sorgeva il sole, avvolto in un velo di foschia come il bozzolo di un gigantesco baco da seta, che spruzzava su tutta l'isola una delicata lanugine di polvere d'oro.”

Beato lui. 

martedì 22 aprile 2014

La città e i cani: spine.

Spina.
Quando era obbligatoria la leva, le matricole dette spine si dovevano stare, secondo la legge del “chi è più grande (in grado, o in esperienza)  è masto  e vatte”. 

Vargas Llosa, la città e i cani
Nel romanzo di Vargas  LLosa  i cani sono le spine, i cadetti del primo anno della scuola militare Leoncio Prado.  La città  è Lima, ambito sogno dei consegnati a cui è preclusa la libera uscita (e basta arrivare ultimi all’adunata), ma in modo più ampio la città -   o meglio gli ambienti sociali esterni alla scuola – è/sono l“altrove” da cui provengono e a cui ritornano i cadetti, una  variabile che incide in modo indelebile sul loro destino. 
Essere montanaro, ad esempio,  è già un discrimine, un marchio. 
L’altrove, e l’adolescenza, si perdono nelle ferree regole del collegio e nelle sue infrazioni.
Infrangere le regole  diventa un obbligo per i cadetti,  così come strafottersene delle regole della civile convivenza, per applicare quelle del branco, del machismo e del nonnismo. 

[ho pensato a latere ai fischi durante il giuramento, nel 2009, verso le donne ammesse per la prima volta alla Nunziatella: non perchè donne, ma in quanto il loro ingresso determinò la decisione di punire con rigidità gli atti "goliardici". 
E mi sono sempre chiesta quanto ci sia di "goliardico" nel fare una doccia d'acqua gelata a un poveraccio che dorme in branda, giusto per fare un esempio. 
Quanto sottile è il filo che separa  goliardia e nonnismo?)

Furti, violenze, sopraffazioni,  e soprattutto omertà:  il collegio militare è un vero inferno, soprattutto per chi è fatto di pasta buona.
Essere un grande bastardone  è un vantaggio stratosferico. 
Essere un timido, un riservato, un refrattario alla violenza e al codice omertoso  è uno svantaggio che si può  pagare  con la morte. 
Essere un poeta,  ma abbastanza sfaccimmuso  ed estroverso da piegare a proprio vantaggio la propria abilità può da un lato salvare, dall’altro porre in condizione di farsi troppe domande, e  di sentire, al fine, il peso gigante dell’ingiustizia.
Essere un militare troppo ligio alle regolamento che deve essere anch’esso piegato alle esigenze del prestigio e del decoro e dell’onore anche a svantaggio della giustizia, può causare infiniti danni, e i militari, è cosa nota,  in America Latina (e non solo) hanno fatto  il brutto e anche il cattivo tempo e ben ci tengono, fino a che possono,  a tenere nascosti dentro gli armadi tutti gli scheletri e i cadaveri.

Il romanzo di Vargas LLosa,  molto interessante anche dal punto di vista  stilistico, perché  si susseguono voci narranti diverse anche nella forma del discorso diretto libero, conferendo alla storia una poliedricità di prospettive, è da un lato una denuncia spietata della “mentalità militare” e della scuola che lui stesso fu costretto a frequentare su obbligo del padre, e dall’altro una dolente rappresentazione dell’adolescenza strappata,  un romanzo di formazione  dove solo i più forti, o i più furbi, o quelli che  riescono  a scendere  a compromessi,  possono sopravvivere uscendone quasi indenni. 

E passata la bufera, conquistato l'agognato diploma, meglio dimenticare, innamorate comprese.

"Come poteva avere una fiducia cieca nelle autorità, dopo ciò che era successo? Forse la cosa migliore sarebbe stata quella di comportarsi come facevano tutti. Senza dubbio, il capitano Garrido aveva ragione: i regolamenti devono essere interpretati razionalmente, bisogna pensare soprattutto alla propria sicurezza, al proprio avvenire."