mercoledì 31 dicembre 2014

Il caporale Lituma sulle Ande

Questo è l'ultimo post dell'anno. 
Questo incipit non ci appizza niente con il caporale Lituma, però. 
(una liaison nelle Sopravvivenze)

Avrei potuto, avrei voluto, avrei dovuto non scrivere più niente. 
Resettare, come quando ti accorgi che un'esperienza ha dato quello che doveva dare, fatto quel che doveva fare, e sarebbe meglio troncarla, finirla, senza che - la fortuna del poter cliccare sul tasto cancella, che nella vita reale non c'è - si trascini così, senza  senso, senza entusiasmo. 
E invece, per una beatamazza che non ha niente di razionale, spero che la piantina si possa ripigliare, nonostante la gelata,  la neve, e le foglie ammosciate e livide. 

E mò il caporale Lituma, che si chiede:

Come era possibile che quei manovali, molti dei quali abituati a vivere come creoli, che avevano fatto almeno le elementari, che avevano conosciuto le città, che ascoltavano la radio, che andavano al cinema, che si vestivano da cristiani, avessero compiuto cose da selvaggi tutti nudi e cannibali? Se si fosse trattato di indios delle zone più remote delle Ande, che non avevano mai messo piede in una scuola, che continuavano a vivere come i loro trisnonni, sarebbe stato ancora comprensibile.

Il caporale Lituma, che compare in modo "periferico" anche in altri romanzi di Vargas LLosa (pur'iss, eh, mica gli piace abbandonare per sempre i personaggi, ogni tanto risuscitano) è destinato  a Naccos, in  un presidio sperduto sulle Ande peruviane, un presidio che è una baracca in un paesino/cantiere  - baracche e lamiere - costruito nel cuore delle montagne per forarle e spianarle al fine di  costruirvi una strada. 
Tre scomparsi, tre uomini inghiottiti nel nulla di una natura ostile e nel nulla dell’ostilità di altri uomini. 
Rapiti da un gruppo di senderisti? 
La scia di Sendero Luminoso  campeggia nella prima parte del libro, strutturato quasi come un noir: il caporale non si rassegna al silenzio e cerca in tutti i modi di fare luce sulle sparizioni,  nonostante la difficilissima permanenza nella landa sperduta, ingoiata dalla prepotenza del paesaggio andino, permanenza consumata dall'attesa nervosa e febbrile - i senderisti potrebbero giungervi in ogni istante  per consegnarlo alle pietre in quanto esponente dell’autorità governativa - e allietata o distratta, se così si può dire, dal racconto delle  pene d’amore del suo giovane aiutante, appuntamento serale quotidiano. 
Nel romanzo è marcatissima  la cifra stilistica di LLosa   ormai a me nota e sempre amata: storie su storie che si inanellano sulla spina centrale del  racconto, alternanza  di voci  senza soluzione di continuità e senza “segnali”  narrativi  o interpunzioni  (un romanzo a parte potrebbe costituire il racconto della storia d’amore tra il giovane poliziotto  Tomas, finito a scontare l’eccesso di gelosia sul pizzo del mondo, e la piurana Mercedes ; ma bei cammei sono anche i  flashback sulla giovinezza del cantiniere Dioniso e di sua moglie la strega Adriana, o del muto scomparso).

Anche se l’emergere di una verità sconcertante rinchiude Sendero Luminoso nella parentesi della Storia contemporanea,  e lo rende estraneo alle sparizioni di Naccos, io penso che la vera domanda di Vargas LLosa, oltre quella che si pone Lituma sia “Come era possibile che i senderisti (e ancora, sotto altre bandiere, sigle, pretesti e perepepè), molti dei quali colti, molti dei quali per  tanto tempo scamazzati e ultimi,  se la prendessero  non solo con i ricchi possidenti, ma anche con gli stranieri indipendentemente da, con i  “finocchi”,  con le “puttane”,  con i disordinati,  con i casuali, mostrando una crudeltà senza senso?”
La risposta potrebbe essere  nella “Sopravvivenza del fondo di irrazionalità proprio della natura umana  feroce,  che nessun tempo, civile  o rivoluzionario,  riesce a cancellare.” 

Perché è questo il nodo del romanzo.
Ferocia, crudeltà.

E non se ne esce scappando da Naccos.


giovedì 4 dicembre 2014

Il ventre di Napoli (e i capelli e i piedi)

C’è un grande via vai, un vero burdello, nei pressi di Napoli Sotterranea.
(per non dire del mare magnum di sagome  umane che si muove spinto dall’onda inerziale, più che da una sciente volontà, in Via San Gregorio Armeno)
 Il ventre di Napoli  attrae quanto i suoi capelli e i suoi  piedi. 
Gruppi  di turisti, di scolaresche,  famigliole e famiglione entrano ed escono di continuo dall’ingresso del sito, a lato della chiesa di San Paolo Maggiore, in Piazza San Gaetano.
[I Decumani sono un tripudio di santità. 
Mi chiedo come conventi e chiese, concentrati in modo impressionante in pochi metri quadrati,   si spartivano  il gregge,  e come facciano tuttora.
Un tot di  fedeli  affezionati e un tot di fedeli a turnazione -  quelli che non vogliono far  pigliare collera a nisciuno]
La guida, una ragazza con occhi azzurrissimi (i normanni, mica a caso)  e look postsessantottino,  sta un poco sfasteriosa:  forse  raccontare  la medesima storia  4 o 5 volte al giorno per enne giorni  porta alienazione allo stesso modo che manovrare una leva 100 volte al giorno per enne giorni. 

Il primo passaggio  del sito, a cui si accede da una scaletta a lato della biglietteria,  è  uno spazio poco luminoso posto poco sotto il livello della strada.
La prima impressione  è olfattiva: un tanfo di muffa e chiuso che ottenebra.
Le pareti   scenograficamente trattate con  pitture a graffi fosforescenti  e i due mamozi (Egiziani? Minatori? Extraterrestri?) rappresentano  simbolicamente  il primo utilizzo del sottosuolo da parte degli abitanti di 2400 anni fa:  i greci    estraevano   il tufo al fine di costruire le mura della  neapolis. 
La seconda impressione è oibò -  è un sito archeologico o un  parco divertimento tematico?
Fortunatamente questa seconda  sensazione  si dissolve presto,  nella seconda “grotta”,  alla vista del tufo crudo delle pareti, senza la impaccottiglia del blu violaceo con strisce fosforescenti gialle aranciate. 
Poi si scende, fino a 40 metri sottoterra.
In una cavità ampia su un muretto sono poggiati tanti portacandele. 
Nessuna preghiera o voto: in alcuni stretti cunicoli non vi è illuminazione, il passaggio a lume di candela, dentro le fessure delle rocce,  camminando in fila indiana, con le ombre che si disegnano sulle pareti altissime,  conferisce  una suggestione particolare. 
Se riuscissi a tenere lontana  la claustrofobia,  e i pensieri di  un malore, di un terremoto, di un cataclisma – cazz come esco da qua sotto -,   non tanto nei passaggi strettissimi  e bassi  quanto in quelli meno stretti ma tra pareti di roccia altissime, potrei anche sentirmi un’ombra, o una sibilla, o un’avventurosa  esploratrice. 

Dalla cava di tufo  greca ai cunicoli  e vasche dell’acquedotto romano alle cisterne svuotate e pavimentate per accogliere i rifugiati della seconda guerra durante gli allarmi aerei   ai piedi rumorosi dei turisti del 2014 (e ai progetti strampalati,  come immaginare un parco giochi sotterraneo con l’umido che deforma le giovani ossa, pazzi, gli architetti talvolta; o agli esperimenti scientifici, far crescere le piante senza acqua, in virtù dell’umidità e del calore di lampade poste ad emulare la luce solare: utopie): si respira la Storia, centrifugata in una passeggiata.

Nei cunicoli paradossalmente l’aria è più pulita e netta che negli spazi  di superficie del sito: il Museo della guerra è un nome roboante per un  paio di locali nei  quali sono conservati, in vetrine polverose disposte lungo le pareti delle  sale, divise e  armamentari e ammennicoli della seconda guerra mondiale. 
Quel che  resta impresso del Museo è il sapore di chiuso, rapidamente scivolato dal naso alla gola, che costringe ad una  rapida rassegna  e alla fuga  verso l’esterno. 

Il tour proposto da Napoli Sotterranea comprende anche la visita del teatro greco- romano.
L’accesso ad una parte degli scavi si effettua entrando nel  “basso” di un palazzo:  i proprietari  che ivi risiedevano  furono  indennizzati e delocalizzati. 
Nel  vascio,  due letti singoli, una singer,  una cucina economica,  alcune credenze e cummò,  stampe di santi e di madonne, ventiquattro chili di polvere su ogni suppellettile. 
(la polvere rende bene l’idea del vecchio e dell’antico)
La guida prontamente sposta il letto e oooops, una botola. 
Una botolona. 
La solleva disvelando  una scala che portava nella cantina che era un porzione di teatro romano.
Un po’ come usare il sacro graal per tenerci in ammollo i legumi. 
Ma certamente, se non si sa che cazz è  il sacro graal, se non si percepisce la sua “aura”, esso  non è altro che un contenitore. 
Del  teatro greco-romano,  inglobato nelle costruzioni successive,   è stata portata allo scoperto solo una piccola parte:  altra è sicuramente diventata mattone o pietra d’angolo per costruzioni lontane, e di questa visitabile - oltre alle mura costruite con l’ opus reticolatum e  l’opus latericium,  osservabili  in segmenti lungo tutti i Decumani, e gratuitamente fruibili -  c’è poco da vedere,  per  occhi non esperti. 
(anche i miei, ça va sans dire: se teatro fu, non si vede )
Più che al teatro,  penso ai  proprietari del vascio la cui cantina era uno spazio del teatro:  la   botola era nascosta da un tappeto su cui poggiava il letto che aveva un sistema di scivoli e incastri, difficile accedere al  "sottopiano".
Macchinoso, per essere l’ingresso di una cantina “perbene”. 
Borsari neri? 
Un teatro – l’appartamento  rispettabile  – sul teatro. 

Un’altra parte muraria che apparteneva al teatro greco romano è visibile (visitabile mi pare inappropriato) accedendovi  da un altro spazio “espropriato”:  un’ ex bottega di falegnameria che ospita anche una collezione notevole di  gruppi presepiali,  natività e mestieri, posti ad altezza di occhio e di notevole fattura.
(gli scenari dei presepi sono lo specchio delle sovrapposizioni  architettoniche e culturali della città. Il capitello corinzio dentro l’arcata gotica sopra il muro medioevale attraversato dalle erbacce e dalle palle di cannone)
E se da un lato penso, con una puntina di fastidio, che la cifra della città è quella dello sviluppo sommativo, per affollamento, per intasamento, per ottenebrazione, una linea barocca che tracima spesso nel caos, dall’altro penso, con una puntona di orgoglio, a  quanti popoli e genti  hanno la fortuna  di cavalcare duemila anni di natura e cultura, di vedere l’antico che si innesta nel vecchio e nel nuovo e nel modernissimo, sopra e sotto terra, in un modo così “naturale”. 
C’è chi può e chi non può.  
Fortune. 
(ma anche no)