domenica 24 febbraio 2013

Election day


"Dopo che gli scrutatori mi ebbero dato scheda e matita, mi ritirai nella cabina. Sulle schede c’erano tutti i simboli dei partiti. Come sempre. Ma in quell’occasione mi sembrarono più ridicoli del solito. Chissà perché la politica si era interessata a noi quel giorno. Il seggio elettorale era l’unica cosa appartenente al mondo esterno che fosse riuscita a entrare nel penitenziario. […]
Quel giorno invece quello spiegamento di forze,  solo per fare in modo che io potessi esprimere il mio voto. Tutto ciò non doveva essere stato fatto per me, visto che di me e di quelli come me non interessava a nessuno. Doveva esser stato fatto nell’interesse di qualcun altro. E questo qualcun altro erano i partiti, i cui simboli erano disegnati sulle schede che avevo in mano, e i loro candidati. Questo pensavo. Il mio voto non era  più una cosa importante per me,  come ingenuamente credeva Antonio, era una cosa importante per loro."

Sandro Bonvissuto  -  "Dentro"

Sì, sì, come gli diceva Antonio, che aveva perso la facoltà di farlo, c’era stata gente nel passato che aveva combattuto ed era morta per consentire a tutti di votare.
Però, anche se non hanno allestito l’ambaradan del seggio elettorale solo per il mio voto,  oggi mi sono sentita  un poco come quel detenuto lì.



Memento.
Tante volte, prima, ho fatto parte dei seggi elettorali, ricoprendo tutti i ruoli: presidente, segretario, scrutatore. 
Non ricordo più l’ordine. Segretaria o presidente, la prima volta. 
Segretaria diciottenne di una presidente diciottenne. O viceversa.
Il seggio più amato dai soldati. 
C’erano ‘sti poveri cristi a fare il servizio di vigilanza - nooo, per piacere, andate a votare in un altro seggio, che altrimenti dobbiamo compilare un’altra caterva di  carte! - , noi si allestiva il seggio e loro le brandine nelle aule del piano superiore. 
Neanche ricordo da quando  i carabinieri  hanno preso il posto  degli alpini. 
(gli alpini in terronia, ma chissà quale criterio…  possibile che fossero alpini?)
Si azzeccavano i manifesti coi simboli dei partiti tra le a di ape e le b di banana, o di sopra, che staccare dal muro i sillabari e i disegnini mi faceva  brutto.
Facevo con le matite rosse e blu,  due cartelli coi disegni di  maschi e femmine,  da azzeccare sotto i banchetti degli scrutatori, lista maschile e lista femminile,  gli uomini con i pantaloni, uno con la cravatta a la valigetta, uno con la tuta da lavoro e la cassetta degli attrezzi, uno coi pantaloni optical e la supercresta, e le femmine,  tutte in gonnella, accessoriate variamente: battipanni e i bigodini, tailleur e valigetta, etc etc.
“da che parte aggia i?” - “Signora, ma ci sono anche le indicazioni visive” – dicevo, mostrando i cartelli.
[Ho sempre avuto una certa insofferenza per le cose serie]

Quando ancora si poteva scrivere la preferenza per il candidato, le elezioni comunali erano le più temibili, le più terribili. 
(insieme alle regionali o politiche, poi, un vero inferno)
Il fiato sul collo non tanto dei messi comunale, dati statistiche, quanto dei -  come si chiamano - ,  dei controllori delle liste, dei rappresentanti dei partiti, dei cani da presa dei candidati (dei candidati stessi). 
Ogni scheda palesemente nulla una storia infinita. 
Fino a quando – imparai presto – non si metteva nelle mani del contestante il foglio e la penna e senza rispondere né ai né bai alle urla, agli improperi, alle bestemmie, con un sorriso freddo gli si diceva  –  SCRIVA– i motivi della contestazione, così da riportarli  agli atti. 
A volte una penna fa più paura di una pistola. 
Erano dei tour de force, quelle tornate elettorali. 
Non come i referendum:  lo spoglio rapidissimo, lo stress ridotto al minimo – una pacchia.
Soprattutto quello dei dodici quesiti, dodici schede, un gruzzoletto tale da permettere una vacanza all’estero quasi tutta spesata, seppure in sacco a pelo e tenda.

In mancanza di nomina,  si faceva la fila alle 16,00 del sabato a  sperare di tappare i buchi degli eventuali scrutatori assenti. 

Chissà stavolta in quanti hanno rinunciato alla nomina di scrutatore. 

mercoledì 20 febbraio 2013

Il pleut


C’è un motivo per cui Natura morta con picchio  ha stazionato sotto i miei occhi per un fottio di tempo, che manco Dostoevskij.
Anzi più di uno.
Ruzzle, il primo. 
Vita e opinioni di Tristan Shandy di Sterne, secondo.
Le montagne di chiacchiere dell’uno e dell’altro, terzo.
Non è possibile fare un confronto tra i due libri, non è questione di  stelle e stalle: sono inconfrontabili, carne e pesce.
Tuttavia  una sottile linea li unisce: il piacere della divagazione, che determina l’ inevitabile caduta della mia  concentrazione e  attenzione, visto che già autonomamente e senza particolari sollecitazioni divago pure su un monolite. 

Tra i tanti, tantissimi fuori traccia di Natura morta con picchio – del resto lo dice pure Robbins, che è “l’incontro ravvicinato tra oggetti animati e oggetti inanimati uno dei temi del libro” , oltre alla parentesi  sulla mitologia del fuoco legata all’atto del fumare, almeno un altro.

Pioggia. 


Sul continente pioveva. La celebre pioggia di Seattle. La sottile pioggia grigia che i funghi  velenosi adorano. La persistente pioggia che conosce ogni più nascosto accesso nei colletti e nelle sporte. La pioggia quieta che sa arrugginire un tetto di latta senza che questo faccia il benché minimo rumorino di protesta. La sciamanica pioggia che alimenta l’immaginazione. La pioggia che sembra in realtà un idioma segreto, un sussurro simile all’estasi del primitivi, all’essenza delle cose. In realtà la pioggia serve a molte cose. Impedisce al sangue e al mare di farsi troppo salati. Somministra gocce da K.O. alle viole indisciplinate. Erige la scala che il neon risale fino alla luna.





Manco sotto sforzo e dietro lauto compenso, riuscirei  ad associare alla pioggia immagini  poetiche, quale  idioma segreto e sussurro simile all’estasi dei primitivi, e se piove nel pineto e il verde vigor rude ci allaccia i malleoli ci intrica i ginocchi, penso solo che affondiamo nella lota e gli inzaccheri di fango  ci arrivano fin sotto le mutande.
In ordine, quando il pleut, penso a:
- gli ombrelli che quando servono non ci sono mai, se appena comprati si perdono immediatamente, lasciati in ogni dove,  restano gli  stazionanti nel portaombrelli  che sono scassati e dovrebbero stare nella munnezza, intanto possono ancora servire,  tenendo la stecca dritta  con  una  mano. 
- le scarpe inzuppate  e anche i pantaloni, che  fanno  quel simpatico effetto risucchia acqua, assorbendola  in verticale. 
- l’effetto  umidiccio che pare attraversare, manco un raggio x, finanche  il midollo osseo.
- il colore plumbeo del cielo  quando dovrebbero comparire le dita rosa di Eos, fatto  che mi si macigna nel cervello e mi dispone malamente  per tutto il giorno (meteoropatismo acuto)
- i lavaroni che coprono i fuossi nella strada che abitualmente percorro per andare al lavoro, e anche se conosco le buche  ad occhi chiusi e zigzago a memoria, resta sempre l’incognita  dell’apertura di nuove voragini subdolamente  nascoste dall’acqua. 

Potrei continuare ad libitum.
Lo faccio fare a Luciano Folgore.
Alla sua rivisitazione  de “La pioggia nel pineto”


La pioggia sul cappello.

Silenzio. Il cielo 
è diventato una nube, 
vedo oscurarsi le tube 
non vedo l’ombrello, 
ma odo sul mio cappello 
di paglia, 
da venti dracne e cinquanta 
la gocciola che si schianta, 
come una bolla, 
tra il nastro e la colla. 
Per Giove, piove 
sicuramente, 
piove sulle matrone 
vestite di niente, 
piove sui bambini 
recalcitranti, 
piove sui mezzi guanti 
turchini, 
piove sulle giunoni, 
sulle veneri a passeggio, 
piove sopra i catoni, 
e, quello ch’è peggio, 
piove sul tuo cappello 
leggiadro, 
che ieri ho pagato, 
che oggi si guasta; 
piove, governo ladro! .... 

L’odi tu? Non è di passaggio 
come l’acqua 
di maggio, 
che sciacqua la terra e la monda. 
Sgronda terribilmente; 
si sente il blasfemo 
di un polifèmo ambulante, 
si veggono ninfe e atalante 
fuggire in un angiporto; 
Plutone più vivo che morto 
si pone una nivea pezzuola 
sul feltro che cola; 
Diana s’accorcia la tunica 
fin quasi all’altezza del femore, 
e Dedalo immemore a Marte 
con toga a due petti e speroni 
s’impalano ai muri con arte 
per evitare i doccioni. 
Cibele fa segno all’auriga 
che incurva il soffietto alla biga, 
e monta sul cocchio 
mentre la furia di Eolo 
le palpa il malleolo 
le morde il polpaccio, 
si sfibia 
d’intorno allo stinco e alla tibia.

Bagnati dal coccige al collo, 
dal naso al tallone d’Achille, 
fradici fino al midollo, 
cugini alle anguille, 
nubili d’ombrello, 
col solo cappello, 
sentiamo che l’essere anfibi 
sarebbe un superbo destino, 
te biscia, 
io girino, 
e liscia la piova del giorno 
ci colerebbe d’attorno, 
non come Issïone 
che fece la ruota a Giunone, 
ma pari al Tritone 
cui Teti concesse 
- regalo di nume - 
di potersi fare 
un ampio palamidone 
di schiume di mare.

E piove sempre, 
sul càmice mio, 
sul peplo tuo 
colore oramai dell’oblio, 
piove sul croceo e l’eburno 
del tuo moccichino di seta, 
piove sul cromo del mio coturno 
che s’impatacca di creta, 
piove sopra il cinabro 
che t’impomidaura il labro, 
piove sui tremoli tocchi 
che t’anneriscono gli occhi, 
e andiamo d’androne 
in androne, 
con facce da mascherone, 
squadrandoci obliquamente 
se qualche pozza lucente 
ci specchia e ci invecchia 
per farci morir di furore, 
Narcisi 
dai visi colore 
di colla di paglia, 
di succo di nastro, 
d’impiastro di minio, 
di guazzo assassino 
di cipria e di carboncino.

E piove a dirotto 
da tutte le nubi, 
piove dai tubi 
sfasciati 
dell’acquedotto 
del cielo, 
piove sui cani spelati, 
piove sul melo e sul tiglio, 
piove sul padre e sul figlio, 
piove sui putti lattanti 
sui sandali rutilanti, 
su Pègaso bolso, 
su orïolo da polso, 
piove sul tuo vestitino, 
che m’è costato un tesauro, 
piove sulla salvia e sul lauro 
sull’erbetta e sul rosmarino, 
piove sulle vergini schive, 
piove su Pàsife e Bacco, 
piove persin sulle pive 
nel sacco. 
E piove sopra tutto 
sul tuo cappello distrutto 
mutato in setaccio, 
che ieri ho pagato 
che adesso è uno straccio, 
o Ermïone 
che scordi a casa l’ombrello 
nei giorni di mezza stagione.

giovedì 14 febbraio 2013

SanRementino


C’è una pubblicità che è stata fatta su di me. 
Dovrebbero pagarmi per l’ispirazione arrubbata. 
E dire che non guardo la televisione, anche se è accesa  non la vedo, non la sento, non l'ascolto. 
(guardo forse l’oblò della lavatrice che gira?)
Eppure l’ho notata, en passant. 
Non mi ricordo manco cosa pubblicizzi. 
C’è un tizio che si alza dal letto, fa colazione, si veste e si impernacchia (ecco, qui c'è la divergenza, io no, mi vesto soltanto), poi scende le scale e lungo la parete nota un quadro fuori squadra, lo acconcia rimettendolo in perpendicolare, si avvia alla porta, la apre e trova la guerra fuori.
I bombardamenti.
Ecco, così moi.

“Ma come, non vedi Sanremo?”
Non guardo la televisione, risposta solita, e dunque  neanche il festivàl.
E poi ci ho pensato che, qualcuno sì, un tempo.
Sono andata su wiki per ripercorrere la storia di Sanremo e dei miei ricordi. 
Pochini, la verità.
I vocioni: una sbiaditissima [ora ridicola] Anna Oxa,   Alice e Per Elisa (urca, mi piace ancora),  
e poi.
Eros Ramazzotti. 
Che  purpo è ora forse non come  allora,  possibile che mò mi viene in mente, mò ci ho fatto caso,   che il mio primo fidanzatino era pari pari, uguale uguale , stesso broncio stesso sguardo da morbido pescione? 

Meglio non ricordare, non rinvangare, non togliere gli scheletrazzi dall’armoire.

No, non guardo Sanremo.