lunedì 30 dicembre 2013

Tutta n'ata storia.

Il primo concerto vero, enta anni fa, più o meno, forse più.
Al teatro tenda,  sic et sempliciter,  c’era Pinuccio, prima che occorressero gli stadi e piazza del Plebiscito fino a Toledo e oltre.
Il Palapartenope  e Fuorigrotta non sono più come un tempo.
Ma cosa lo è?
Qualcosa migliora invecchiando (non solo il vino), ma  in genere, come diceva la nonna mia, ogni scarpa addiventa scarpone.
(Meno male che ci stavano tanti scarponi,  più scarponi che guagliuncielli, che altrimenti, eh)

Il concerto è preannunciato dal pazzariello.
Un incipit difficilmente esportabile, e non mi dispiace, che le radici, anche se aeree,  non sono acqua.
'O pazzariello lo dice, ci stanno le guests stars, ne prendi tanti al prezzo di uno.
Certo, anche al momento della prevendita, si sapeva che il concerto sarebbe stato Pino Daniele + special guests.
Tante.
Nel calderone ci sono entrati  Clementino (che è davvero nu guaglione checazzo),  Eugenio Bennato, sempre con la stessa espressione sfasteriata di chi ha passato un guaio nero,   Lina Sastri e Teresa de Sio che seppur ottimamente conservate  hanno modificato in pernacchie le voci, Raiz e Osanna, i padri del progressivo, la cantante celtico-napoletana (!!!) Jenny Sorrenti,  il burdellaro  Tullio De Piscopo e il mistico (accussì li ho sempre chiamati in capa mia) Tony Esposito, ‘o vucione di James Senese e il maestro Rino Zurzolo e mò mi sfugge una  paranza di nomi, ma tant’è.
Tre ore di musica, una scaletta che manco mi ricordo più.
Ahh,  la Nuova compagnia di canto popolare, quella  che ha dato inizio, con la Tammurriata nera.
“Eh, però – dice l’amica mia – io volevo sentire il concerto di Pino Daniele”.
Ci sta, ci sta.
Ma.
Mi chiedo se riuscirebbe a tenerlo da solo, un concerto intero.
Mi chiedo se ce la farebbe ancora, a cantare e suonare anche per soltanto mezzora  filata, mentre a uno a uno,  a gruppi, in combinazioni insolite (Tullio De Piscopo e gli A67  fanno scintille) vecchi e nuovi compagni di strada, la carica dei trecento,  tengono da soli il palco, oppure lo accompagnano o si fanno accompagnare nei  pezzi forti.
E non c’è niente da fare,  Pinuccio quando tocca la chitarra è sempre un masto, e  si impone, tra gli strumenti e sulle voci degli altri,  il caldo e roco e profondo e dolente timbro  della sua voce.
Quasi quella di una volta.

Tra tutti i pezzi, alla faccia del rock progressivo, quello da brividi ‘ncuollo, da buco nel lago del cuore, è fatto da voce e  chitarre.
Solo voce e chitarre.
Appocundria.

Una  bella botta.


domenica 29 dicembre 2013

Better not to bet

“Iamm, facciamo una scommessa, mi leggo un libro che dici tu, uno di quei palammetri  che piacciono agli intellettuali, poi mi metto a studiare bravina bravina, mi faccio le ricerchine, e sfornacchio un commento di quelli uammamà.”
Il libro mi è stato passato. Anzi due, meglio abbondare.
Due libri di racconti di tale Dagerman Stig,* mai sentito nominare prima (vabbuò che novità)
Prima ancora di addentrarmi nella lettura, butto un occhio sul web.
Svedese, non tedesco, come il nome di primo impatto mi aveva suggerito. 
Suicida a 31 anni. 
Oilloco. 
Perché è inevitabile pensare alla beatificazione letteraria di chi ha raccontato la disperazione e alla disperazione ha ceduto. 
[David Foster Wallace e Breece Dexter John Pancake, I primi nomi di giovani scrittori suicidi che mi vengono in mente.] 
Anarchico, tant’è  che la pagina in italiano che accoglie maggiori informazioni biografiche è una pagina di Anarcopedia (marò, e quante pedie ci stanno!)
Una vita che, indipendentemente dalla qualità e dalla novità della scrittura, può alimentarne il culto. 
Non so quanto questo ingombro, o pre-giudizio, possano avermi condizionata. 
(mannaggia alla capa mia)
Di certo tutta il tempo della lettura, un tempo lunghissimo, data la brevità dei testi, è stato impregnato da un senso di sconfitta, di desolazione, di cupezza. 
Soprattutto perché, già da subito, ho capito che avrei perso la scommessa.


Ma anche no.

http://poostiiilleee.blogspot.it/search/label/Il%20viaggiatore


http://poostiiilleee.blogspot.it/search/label/I%20giochi%20della%20notte




martedì 24 dicembre 2013

Cronache da grinch

Un tempo, non tanto tempo fa, un pocherello pure mi piaceva l’atmosfera prenatalizia. 
Il senso dell’attesa. 
Attesa della supermagnata, che si concretizza in smazzamenti smisurati tra i fornelli e nei supermercati coi carrelli. 
Attesa degli incontri, attesa dei sorrisi, anche se sfarzosamente forzati.
Ma anche un tempo, non tanto tempo fa, sguisciava una sottile linea verdognola, resa per contrasto tanto più acidula quanto più miele e smancerie colavano d’intorno.
Tant’è, più che per il bene comune per l’impossibilità di fuggir lontano,  continuo a fare il buon viso al cattivo gioco.

Ma adesso, proprio, c’è il fuori che mette a dura prova ogni buon proposito. 
E’ in terzo e ultimo, spero, giorno di allietamento prenatalizio. 
Sul marciapiede, assoldata dai commercianti, che “ il Comune non fa niente, non pensa a niente, non mette le liuminarie, non mette i tappeti con le renne, non mette le stelle di natale” - non si interessa di incentivare all’acquisto, come se luci e sfarfallii potessero gonfiare magicamente i portafogli -  c’è una banda di animatori. 
Babbi natale che fanno i palloncini, Babbi natale che alluccano ai bambini, Babbe natale scosciate che fanno ciao ciao alle automobili mentre ballano al ritmo di gnamgnamstyle ,  creature,  un poco di pausa solo  nell’alternanza  tra uno gnam e un altro con “a natale puoiiiii fare tutto quello che non fai maaaaaaaaai”.
Ballano. 
Ecco, anche a  me. 
Son tre giorni che mi nutro di novalgina,  per il mal di capa prodotto dalla   musica a palla nelle orecchie,  quintali di decibel, nonostante le finestre chiuse, e il terzo piano. 
Un burdello tale che non si riesce  parlare, non si riesce a  telefonare, non ci si può concentrare, non si può riposare. 
Non si può staccare l’interruttore. 
(la scegliessi io, dico, ma pure un cacchio di repertorio del caizer, animatori dei ballons)

E i carabinieri? E i vigili urbani?  (contattati più volte, e  che lo dico a fare)
I secondi sono in ferie, of course, i primi stanno a mandare le pattuglie. 
Dove, come, quando, vuless sapè. 



mercoledì 27 novembre 2013

Il pepè

Il mio verdummaro Fabio è diverso. 
Fabio ha più tatuaggi che pelle, lo spinello sempre azzeccato in bocca, e uno sguardo da fetentone.
Da lui  niente bio, e  niente cachissi venduti come cammei nelle vaschettine  di plastica blu con centrino di pizzo di plastica di sotto. 
Sulle cassette della frutta e della verdura  ci sono i rotoli dei sacchetti per il self service, se si vuole far da sé.
Dei ragazzi lo  aiutano nel negozio.
Durano poco, i ragazzi di Fabio.
Un masto  troppo esigente, o forse soltanto troppo sfuttitore. 
Fatta la spesa,  aspetto come al solito che infili gli odori nella busta. 
(Petrusino, laccio e vasenicola  – pure d’inverno – sono omaggio)

Dimetriossss, pigli’ ‘o pepè là adderetr.
Demetrio, il nuovo arrivato, si inabissa nel retrobottega, mentre l’altro guaglione porta la cassetta con gli odori  (prezzemolo, sedano e basilico) dal camion alla cassa. 
Demetrio non esce.
Demitriiiooo, l’è truat ‘o pepè?
Demetrio riemerge con in mano un fascetto di bieta. 
Dimetriooosss,  ma che è pepè chest?? Va, vire, è arancione ‘o pepè. Sta sotto lloco. 
Demetrio ritorna nel retrobottega a continuare la sua ricerca. 
Mai scontentare il masto. 
Mica solo Demetrio, pure io mi chiedo che cavolo sia il pepè. 
Improvvisamente  un’illiminazione (SanMassimoTroisidaSanGiorgioaCremano). 
Il pepè è il minollo vegetale. 
E poiché Fabio capisce  che tempo 5 secondi avrei fatto fuori il gioco (povero Demetrio), si  affretta ad aggiungere:
“Nun dà retta, Dimitréss, sta ccà ‘o pepè, jesci  fora”.

Da Fabio, in omaggio oltre agli odori, ho anche una piccola dose di buonumore. 
Impagabile, quella.

mercoledì 13 novembre 2013

Chesil Beach

Era  da tempo che non leggevo  un libro capace di indurmi a  produrre  un migliaio e passa di pensieri.
(non so mica se è una cosa buona, però) 
E’ successo con Chesil Beach di McEwan. 
Letto anche  un poco  prevenuta, che Sabato dello stesso autore mi parve una palla cosmica. 
(e nonostante abbia adorato il libricino per ragazzi L’inventore dei sogni
Mica mi ricordo com’è che ho deciso di leggerlo.
(ah, usato come tagliamattunazzo, ecco, mò sì)
Fatto sta, che mentre lo leggevo, pensavo a quanto distante fosse quella storia  dai nostri tempi, da me.
E invece alla fine mi ha coinvolto molto molto più di quanto potessi mai immaginare all’inizio. 

Chesil Beach
Erano ancora i tempi, destinati a concludersi alla fine di quel famoso decennio, in cui essere giovani costituiva un ingombro sociale, un marchio di irrilevanza, una condizione di leggero imbarazzo per la quale il matrimonio rappresentava l’inizio di una terapia.
Erano i primi anni ’60. 
Una preistoria, data la difficoltà a immedesimarsi non tanto nei personaggi, quanto nella situazione.
Florence e Edward, poco più che ventenni, lei musicista, lui laureato in storia, di famiglia altoborghese e poco incline alle affettuosità lei, di famiglia scumbinata e calorosamente fingitrice lui, si incontrano, si innamorano, decidono di sposarsi. 
Un anno di castissime passeggiate,  sguardi, sogni di un futuro radioso, Edward arruolato nell’azienda del suocero, che non manchi il buon lavoro segno di distinzione sociale. 
Ma qualcosa non va, si inceppa, si blocca.
La prima notte di nozze si rivela una tragedia, tale che i due, a Chesil Beach, luogo ideale per la luna di miele,  si separano per non incontrarsi mai più. 
Matrimonio non consumato. 
(Ma che brutta espressione, consumare il matrimonio, a rigor di logica il matrimonio si è consumato e pure velocemente, si è proprio svaporato)

La voce del narratore adotta, nel racconto della notte a Chesil Beach, ora il punto di vista di Florence ora il punto di vista di Edward, attraverso flash back fornisce descrizioni delle loro vite familiari e dei loro incontri e rapporti e pensieri e paure prematrimoniali, e solo dalla prospettiva di Edward, segue ciò che accade dopo.  
La voce di Florence è prevalentemente la voce del presente: i sensi di colpa e il senso di schifo nella prima notte di nozze.
Di Florence non sapremo più nulla, tranne che diventerà una musicista famosa, mentre Edward a sessant’anni si chiederà ancora cosa sarebbe successo se l’avesse rincorsa, se avesse avuto pazienza, se e se. 

E se Florence avesse detto subito del suo problema, già nella serata del cinema,  senza illudersi di poterlo gestire in seguito?
[E se Maria o Michele avessero immediatamente detto o tu o mammete, non vi voglio prendere in paranza?
E se Lucia avesse detto o ti metti con la capa a fa bene e la finisci di toccare il culo a tutte le femmine e poi ne parliamo, senza illudersi che mettere l’anello al dito equivalga a mettere l’anello al pisello?]
Cosa sarebbe successo a Florence e Edward, se Florence avesse parlato prima, se Edward avesse chiesto prima. 
Si sarebbero sposati ugualmente, per poi trascinare per anni  pensieri e parole rimbrottose, le accuse – iotihosposatanonostantetufossifrigida chitelohachiesto?Lohaifattoperisoldieperlafabbricadipapà, -   oppure sarebbe finita prima di cominciare?

Dicevo che è difficile immedesimarsi nella situazione, ma  basta spostare l’asse di osservazione dal problema specifico, la frigidità di Florence e l’urgenza amorosa di Edward “esplose” nella prima notte di nozze, con il loro carico di sensi di colpa, di inadeguatezza, di vergogna e di incapacità di sentirsi "adulti, per ritrovare nel libro una dimensione “universale”. 

Così l'ho letto non nella sua valenza storica, ovvero relativamente alla difficoltà di vivere in modo "naturale" certe esperienze fuori dai condizionamenti sociali e dai tabù (anche quelli autogenerati), nè come un libro sull'incomunicabilità, sia nella coppia che nel microtessuto familiare, quanto come un libro sulla  errata percezione che abbiamo di noi stessi, della nostra capacità di “tenuta” e della capacità di “tenuta” dell’altro.
(Quanto posso durare, senza mentire a me stesso, senza esplodere)
Tra i due personaggi della storia, la mia simpatia e comprensione va ad Edward.
Ma forse solo perché il vero problema di Florence non è tanto la frigidità, quanto un atteggiamento mentale che spesso è anche mio, e che in parte detesto. 
E’  quello di una vita tenuta sempre sotto stretto controllo, governata con il rigore dell’archetto sullo strumento.  
Sapeva benissimo che la gente litiga, anche in modo burrascoso magari, e poi si riconcilia. Ma non aveva idea di come iniziare: molto semplicemente non conosceva il trucco, il dissidio che rasserena, e non era mai riuscita a convincersi del tutto che le parole ostili potessero essere cancellate e dimenticate.”

Un libro molto bello, questo di McEwan. 
Bello come tutti i libri che trascendono la storia che raccontano. 

giovedì 7 novembre 2013

Epigoni

Pensavo  che Cristina Peri Rossi  fosse una giovane autrice italiana, invece è una scrittrice e giornalista  uruguayana.
Le informazioni in rete sono quasi tutte in lingua spagnola, sicchè chi vuole saperne di più è edotto sul fatto che o  si conosce lo spagnolo o  ci si accontenta di una traduzione googliana.

Il museo degli sforzi inutili è l’unico testo della Peri Rossi  tradotto in italiano, in un tempo anche piuttosto remoto,  nel 1990.
E’ una raccolta di racconti, tutti piuttosto brevi  e assai eterogenei,  per timbro più che per temi.
I temi sono quelli cari alla  ormai tradizionale vena dell’assurdo tipica di una certa letteratura sudamericana:  ossessioni,  discrepanze, rotture, incapacità di adeguarsi  alla realtà. 
In poche righe la Peri Rossi mette in  campo  situazioni paradossali o decisamente surreali, come quella in cui un uomo, trovata  tra l’immondizia una porta di legno, se la trascina in casa, la cura, la posiziona in modo che possa guardare il paesaggio dalla finestra, la usa come ascoltatore della storia della sua vita: Parlare al muro è il titolo del racconto.  
In realtà, più che un'esponente generica del filone del realismo magico,  la Peri Rossi è nello specifico un epigono di Cortàzar. 
La pulce è saltata immediatamente al naso sul titolo di uno dei racconti, Istruzioni per scendere dal letto, omaggio - e non plagio, che non vi è alcuna possibilità di paragone - alle istruzioni contenute nelle Storie di Cronopios e  di famas
(Ho scoperto poi  che  l’autrice ha anche dedicato un saggio al suo “maestro” e amico 

Cristina Peri Rossi sta a Cortàzar come Francesco Boneri  sta al Caravaggio.
Non tutti i racconti hanno  la stessa capacità di “sfondamento”,  molti sanno di esercizietto.
Quelli davvero interessanti si distinguono per la prevalenza dello  sguardo ironico  che pur sembrando  bonario, rivela la spietatezza della realtà che è sottesa:  l’Urlo di Tarzan,  Punto Fermo,  La pecora ribelle e  Bandiere.
E forse si erge, sopra tutti,  Storia d’amore
Molto poco ironico, anzi, totalmente tragico. 
(e ça va sans dire, declinabile anche al femminile)
Colpita da una irrefrenabile mania da amanuense informatizzata,  mi sono presa la briga di ricopiarlo, per  il passante che abbia  voglia  di curiosare. 


Storia d'amore - Cristina Peri Rossi (da "Il museo degli Sforzi Inutili)

Disse che mi amava e mi donò la sua vita. 
All’inizio, io mi sentii lusingato – era la prima volta che mi succedeva -, ma poi cominciai ad avvertire un dolore alla schiena. Non esistono vite leggere. Sono tutte difficili da portare. Poiché sono docile ed obbediente, calzai bene il pesante fardello sulle spalle e mi diressi, senza esitare, verso la montagna.  Talvolta la sua vita mi sfregava le scapole, in cerca di equilibrio, e io sentivo un bruciore sulla pelle, che si arrossava e si screpolava. Quando un fianco mi doleva troppo, inarcavo il dorso e cercavo di spostare il peso sull’altro. 
Non avevo ancora percorso la prima parte del cammino quando notai che una delle mie costole  cambiava di posto, venendo a conficcarsi nel mio stomaco. Allora mi allarmai, cercai di disfarmi del carico, ma lei dichiarò solennemente che mi amava, e mi si accomodò meglio sulle spalle. 
Con la costola piantata nello stomaco, era difficile mangiare e muoversi, ma per fortuna scoprii un nuovo di respirare, in due movimenti, il primo lento e non molto profondo, il secondo più deciso, che mi permetteva di continuare a camminare. Osservai come, lungo il tragitto, molta gente si fermasse per congratularsi con me: si era sparsa la notizia del suo amore e io ero diventato relativamente famoso. I miei piedi sanguinavano e rinunciai alle scarpe. Desiderai, come le enormi tartarughe marine, di possedere una corazza che mi proteggesse la schiena.
Sotto il peso della sua vita, io avanzavo chino. Ormai non vedevo più il cielo , né le alte cime degli alberi, né gli uccelli che solcano l’aria, né le fugaci farfalle dei giorni di tempesta. Certo, a volte provavo una forte nostalgia delle nuvole e dell’arcobaleno, ma mi abituai a camminare curvo, a guardare solo le cose che si muovevano rasoterra. 
All’inizio quando mi fermavo a bere presso un ruscello cristallino o a riposare un po’, lei accettava che io depositassi per breve tempo la sua vita a terra (mangiavo e bevevo sorvegliandola attentamente  perché non si perdesse o non se la portasse via uno sconosciuto). Così , mi prendevo un po’ di riposo. Ma un giorno, quando camminavamo già da un bel pezzo, mi annunciò la sua decisione di non separarsi mai più da me. Non potei alzare lo sguardo e guardarla, per via del peso, ma capii ugualmente l’ostinazione del suo proposito. La risoluzione, a quanto mi disse, nasceva dal profondo amore per me. Avevo la schiena incurvata, le gambe che mi tremavano, i piedi scorticati e le costole, ribelli, che si spostavano continuamente, ma avevo l’esclusiva del suo amore. “Non potrà continuare a starmi incollata, se io non voglio”, pensai, mentre con un movimento delle spalle mi assestavo meglio il carico.  La montagna era ormai prossima e la temibile ascesa sarebbe cominciata da un momento all’altro. “Che lo voglia o meno – mi dicevo -  potrò sempre sbarazzarmi un istante di lei per bere o dormire, anche se piange, grida o fa finta di essere malata: basterà scrollare le spalle perché cada”. Tuttavia mi sbagliavo: quando cercai di scrollarmela di dosso per poggiarla un momento a terra, mi accorsi che non potevo farlo. I suoi organi vitali, durante quel tratto di strada, avevano cominciato a secernere un liquido giallognolo, una sostanza cornea che raggrumandosi sulla mia schiena, l’aveva definitivamente unita  a me. Con l’ostinazione cieca del naufrago cercai di rompere la dura crosta che ci univa. “E’ inutile, -disse lei, proprio sui miei reni. – Il mio amore è eterno, indissolubile, indistruttibile. Dai miei seni emana questo zampillo che raggiungendoti  si solidifica e dal mio utero fluisce questo metalloo che aderisce alle tue costole”. “Ormai non ci separeremo più”, aggiunse, trionfante. 
Invano mi scrollai, cercando di liberarmi dal peso: ottenni solo di stancarmi di più. Infatti,  come quelle torpide lumache che avanzano lentamente con il loro guscio addosso, a ogni mio movimento trasportavo, senza volere, anche lei. Pensai di avvicinarmi alla montagna e sbattere brutalmente il mio carico contro la pietra dura, insonne; ma subito capii che mi sarei sfracellato anche io, come una fiera impazzita. 
Sicchè cominciai l’ascesa. Le secrezioni dei suoi organi erano sempre più frequenti; quei liquidi appiccicosi mi scorrevano sulle mani, intorpidendomi le dita; formavano spesse pellicole adesive che univano diverse parti del corpo fra di loro, così la difficoltà di camminare aumentava. Sentivo fluire sulle spalle le sue secrezioni, che rafforzavano sempre più la crosta che ci univa. 
La notte ero esausto e dormivo in modo discontinuo, bagnato dai liquidi che a intervalli regolari sgorgavano dalle sue ascelle, dai suoi pori, dalle sue gambe.
Un mattino mi svegliai con la bocca completamente otturata da un tessuto colloso, giallognolo, di solida consistenza, che non mi consentiva di parlare; compresi che, agitandosi nel sonno, aveva sprigionato quelle fibre cartilaginee che si erano indurite sulle mie labbra. Lottai per spezzare il guscio, ma fu impossibile: ora procedevo muto sulla montagna. 
L’ascesa è difficile. Sono sempre più curvo. Lungo il cammino non vedo nessuno. Non si tratta soltanto della solitudine dei luoghi o dei rischi della montagna: quand’anche passasse qualcuno non lo vedrei, piegato come sono per il peso. D’altra parte, la mia fama si è spenta: credo che nessuno mi riconoscerebbe, con le ossa di fuori, macilento e pieno di croste teguminose. 
La fine del viaggio mi preoccupa: la cima della montagna è molto lontana e non riuscirò mai a raggiungerla. Inoltre sono, o almeno sembro, molto vecchio. So che morirò e ho cercato di farglielo capire: sono sempre più magro, i miei piedi sono ormai scarnificati, le ossa mi spuntano dalle piaghe che ho nel corpo. Siccome non posso parlare (né mangiare) per via della crosta, gliel’ho detto a gesti. Lei mi ha subito consolato. “Ti amo, - mi ha detto, - ti ho offerto la mia vita. Come potresti non darmi la tua?”


mercoledì 23 ottobre 2013

Bambine

Lucia a gennaio era ancora in seconda media, a quasi 16 anni, poi si è “ritirata”, e  a giugno ha fatto l’esame da privatista. 
Anni persi perché non scrutinata, troppe assenze, anno dopo anno sempre di più. 
Non le piaceva andare a scuola. 
A me non  sembrava una ragazzina stupida, Lucia.
Anzi, forse  troppo sveglia, troppo avanti nella conoscenza delle cose del mondo, rispetto alle sue ormai non più coetanee. 
Il suo compito all’esame  – scrivi una lettera etc etc - era piuttosto sconcertante.
Lucia scriveva del bambino che avrebbe avuto, delle sue paure e del suo non sentirsi all’altezza.
Pianti, abbracci, consolazioni e occhi di riguardo da parte di tutta la Commissione. 
(mi era venuto il dubbio che  fosse tutta  una sceneggiata)
Non credevo fosse una ragazzina tanto stupida. 

Lucia è tornata a scuola, a salutare, a mostrare il pancione. 
Un palloncino su un corpicino esile esile, minuto minuto.
E’ una femminuccia, dice. 
(una bambina in una bambina)
Baci, abbracci, commozione, una  collega che dice una scelta coraggiosa, una scelta di vita, brava brava. 
E io no, non ce la fò. 
Mi sento ingiusta e cattiva, ma tant’è. 
Mi è calata addosso una tristezza infinita. 

domenica 20 ottobre 2013

Incubo di una notte di mezza estate (inizio autunno, meglio)

Shakespeare.
E chi non lo conosce, almeno per sentito dire.
La lettura  del saggio di Nadia Fusini,   sua traduttrice appassionata, "Di vita si muore",  ebbe  il devastante effetto di farmi sentire un’emerita ignurante,  dato che di Shakespeare poco e niente conosco in modo diretto delle sue opere,  in quanto lessi  soltanto “Romeo e Giulietta” - passato remoto a tutti gli effetti  - ,  nel pleistocene, mentre tentavo di imparare l’albionico idioma.
Testo in lingua originale con traduzione a latere.
(lessi la traduzione a latere)
Poi, di Shaskespeare  è rimasta solo la fama, e l’alone di grandezza tramandato in citazioni casuali, e il ricordo  incastonato nel film L'attimo fuggente, il sogno birichino di far l’attore nello stralcio della rappresentazione di Sogno di una notte di mezza estate.
“Se noi ombre vi abbiamo offeso, fate conto di aver dormito.”
Ora, posso vantare nel mio nutritissimo carnet anche la lettura integrale di codesta commedia, attinta direttamente dal web.


Un altro teatro, un’altra compagnia.
Una di quelle fatte da giovani attori, una di quelle che mettono in scena rappresentazioni per le scuole.
Devo far conto di aver dormito, non perché le ombre mi abbiano  offeso, anzi, i ragazzi sul palco son stati davvero bravi.
O meglio, non devo proprio far conto di aver dormito, se   tutto  l’ambaradan ha anche  avuto il merito di spingermi a leggere il testo integrale della commedia   per verificare fino a che punto è arrivato lo sfregio.
Chi, nel soggetto del  film  L’attimo fuggente , ha scelto proprio questa opera teatrale di Shakespeare, mica l’ha fatto a caso. 
(ci azzeccava proprio alla perfezione, Otello  non avrebbe avuto lo stesso effetto)
La finzione teatrale  nella finzione cinematografica conserva dell’opera di  Shakespeare il timbro lieve, giocoso e sognante e trasognato.



Tradurre è tradire.
(Anche reinterpretare è in qualche modo tradurre, dunque tradire)
Però c’è tradimento e tradimento.
Nulla impedisce di trasformare radicalmente un’opera, di contaminarla con altre, di  riprodurre pari pari dei versi o delle sequenze e di tagliarne altri, di fare aggiunte improbabili, sintesi, omissioni,   di creare degli ibridi.
Sarà alla fine una cosa diversa da quella da cui è partita.
Che lo si dica, però.
Non sarà più Il sogno di una notte di mezza estate, ma  potrebbe trasformarsi nell’incubo di una notte di mezza autunno.
Soprattutto se Puck è un metallaro con la faccia dipinta da  Jocker che sghignazza continuamente , se Oberon  sembra  Neo di Matrix, se le fatine indossano tutine in latex,  se la banda di artigiani è uno scomposto quartetto di vasciaioli parlanti (urlanti, la verità) solo in dialetto napoletano.
Soprattutto se si perdono totalmente di vista - date le mille distrazioni cabarettistiche e gli ammiccamenti all'estetica contemporanea -   il senso degli equivoci e le riflessioni sull’amore, sulla finzione, l’oscillazione tra il diosiniaco e l’apollino, la mescolanza tra dimensione onirica e vita reale.


(i miei ragazzi non ce li porto, ecco)

mercoledì 16 ottobre 2013

Controiatture

Lo avevo già visto da queste parti, negli ultimi anni, sempre con lo stesso effetto straniante. 
Non è certo la stessa cosa vederlo in azione  nella periferia urbana tra i palazzoni di cemento e il plexiglass piuttosto  che tra i vicoli del centro storico. 
Erano state le urla, gli strepiti, il clangore metallico di una mazza battuta, a spingermi alla finestra. 
Passava, con la sua mise trasandata, la giacca larga larga nera, certe scarpacce nere, i pantaloni neri così lunghi da fare plissè sulle caviglie, il cappellaccio,  l’ambaradan di corni appizzati sui baveri  e l’incensiere che dispensava fumo e puzza. 
Si fermava in ogni negozio,  dal merciaio, dal pasticciere, dall’assicuratore, dal tatuatore, dal giornalaio (e poi non ne vedo più dalla finestra), e immagino che nessuno gli abbia mai negato qualche spicciolo per  il suo straordinario servigio di scacciare il malocchio, la sfiga, la crisi. 
L’uomo della crisi. 
Oggi l’ho visto in piano, non dall’alto. 
Mai così da vicino. 
Era in un bar, a sciorinare  alluccando come un pazzo furioso scongiuri e controiatture,  mentre roteava la caccavella con l’incenso. 
E mannaggia alla morte che m’è venuto scuorno di entrare, posare l’ombrello grondante che nel frattempo ci stava l’iradiddio della pioggia, tirare fuori il cellulare nuovissimo che sicuramente fa anche le fotografie belle ma non so come si usa e avrei fatto sicuramente una quindicina di figure di merda contemporaneamente,  che almeno il particolare del cappellaccio avrei dovuto immortalarlo per sempre. 
Sul cappello stamattina si ergeva  fiera una tigre. 
Una tigre di peluche.
[Una tigre di peluche??]
Eh. 
Chiossape quanto fa la tigre nella smorfia. 
[ chiossape quali traslati simbolici tiene la tigre, che forse una ciucciuettola ci sarebbe stata meglio. 
Un poco di serietà, e che diamine!]

martedì 8 ottobre 2013

Neo e Invalsi

Io poi glielo vorrei dire, a quelli dell'INVALSI, ma venite in certe classi a vedere com'è, le competenze e le oscenità che andate blaterando, come se tutti i ragazzi fossero uguali, come se tutte le classi fossero uguali, come se tutte le realtà fossero uguali, come se e come se.
Che ci si siano pure, ste maledette prove invalsi,  ma che non vengano trasformate in armi improprie, perchè  giudicare il lavoro dei docenti  dagli esiti delle prove  ( tant'è che persino nel decreto legge 12/9 n. 104  art. 16 il ministro stanzia una bella cifretta per la formazione degli insegnanti "Al  fine  di  migliorare   il   rendimento   della   didattica, particolarmente nelle zone in cui i risultati dei test di valutazione sono meno soddisfacenti ed e' maggiore il rischio socio-educativo", e non voglio  chiedermi chi forma gli insegnanti, e che altro giro di magna magna è questo della formazione!) è una aberrazione palese.
Se mi dovessero valutare dopo aver analizzato i risultati conseguiti da una delle mie classi, sarei impietosamente bocciata, e dovrei di corsa sottopormi a corsi di formazione sotto vuoto spinto,  ma se mi dovessero valutare dopo aver analizzato i risultati conseguiti da un'altra mia classe mi farebbero i complimenti. 
E che è, non sono forse la stessa a destra e a manca?
(a manca ci butto molto più sangue, ma tant'è, non si direbbe proprio, visti i risultati). 
E' che ci penso, mi angoscio, mi torturo, su come addestrare la mia classe debole al superamento dignitoso della prova invalsi che farà media all'esame, ma c'aggia fa se a mò di esempio,  dopo aver dedicato la lezione precedente alla spiegazione, dopo aver assegnato una ricerca da fare a casa - bypassata da quasi tutti, che l'internet serve per feisbuc e basta, succede che...

Ma ragazzi, riflettiamo anche  sulla parola. Neoclassicismo. Neo e classicismo. Classicismo, lo sapete vero, è tutto ciò che si riferisce alla cultura classica, la cultura  dei greci e dei latini, infatti, chi di voi [nessuno]  andrà al liceo classico, studierà a differenza degli altri liceali anche il greco e il latino.
E neo? cosa significa neo? pensate alla parola neonato. NEO NATO.
(in coro) E' un bambino
Certo, è un bambino, ma è appena nato, è un NUOVO nato. 
Dunque, ritornando alla parola Neoclassicismo, cosa vorrà mai dire quel neo attaccato alla parola classicismo?
(in coro) Vuol dire NATO, pressorè!

lunedì 30 settembre 2013

Un pomeriggio al museo.

A Capodimonte si va a correre e a pazziare a pallone. 
(iamm ‘o bbbosco)
E’  un luogo di svago per gli abitanti  della periferia nord della città:  in qualche modo, pur stando ad uno sputo (ma ad uno sputo in salita) dal centro, è vissuto come un altrove.
Un luogo privo di qualunque aura snob e sciccosa, anche meta di picnic e macromagnate  nel giorno di lunedì in albis. 

I Borboni borbotteranno nelle tombe  per cotanto sfregio, per la proletarizzazione di tutti i loro parchi venatori,  ma qui  a Capodimonte si rivolteranno proprio.
Che stiano tranquilli sulle collezioni, però. 
Sono al sicuro, dentro il museo, ad appannaggio di un ristrettissimo numero di curiosi. 
Ma proprio ristrettissimissimo.
I Borboni nella dimora di Capodimonte ci inzepparono quintalate di opere d’arte. 
E ce ne sono  ancora a quintalate, persino opere di arte contemporanea (un nome: Andy Warhol). 
In un qualsiasi altro paese europeo (fatta forse eccezione per la Francia, ma tolta Parigi manco) , scorporando le collezioni  ne ricaverebbero  minimo minimo una quindicina tra pinacoteche, musei di ninnoli e gliptoteche,  e ne farebbero strombazzanti  panegirici.
(non ci sappiamo proprio vendere. Ci buttiamo o ci regaliamo)
Ci ho portato degli amici turinesi. 
Nel nostro giro,  in due ore di ammirazioni, abbiamo incrociato solo altri tre visitatori.
(non tutti insieme, naturalmente. Su piani e sale diverse.
ahhh, 5 visitatori, se si considerano anche i due giapponesi incrociati all'ingresso, mentre uscivano)

Ho pensato che il museo di Capodimonte è  un luogo pericoloso. 
Suscita pensieri cattivi. 
Oltre quelli suddetti  del troppa grazia santantonio,  per più di qualche attimo sono stata sfiorata da una malsanissimo impulso creativo. 
Ho pensato che avrei potuto ravvivare l’eburnea  statua di Letizia madre di Napoleone, opera di Canova, rendendola appena appena più femminile, un tocco di rossetto, un poco di fard, un velo di ombretto, qualche meches ai capelli. 


Ho pensato che avrei potuto illuminare la disperazione dei ciechi  di Brugel il vecchio.


Ho pensato che avrei potuto mettere tra le mani del soffiatore di El Greco  le bolle di sapone, piuttosto che un carbone ardente. 

E chi mi avrebbe fermata? Chi mi avrebbe impedito, se avessi voluto,  di fare uno sfregio sul costato del Cristo flagellato di Caravaggio, se avessi voluto mozzare la testa del Cristo crocifisso di Masaccio, se avessi voluto fare la pipì e la popò (massimo atto creativo) su una poltroncina regale.
Nessuno.
(i miei amici torinesi, gente seria, di sicuro)
Nessuno nelle sale, nessuno a controllare le sale.
Però le toilette sì.
Metti che qualche squilibrato voglia che so, imbrattare di gocce d’acqua lo specchio del bagno.
Meglio prevenire che pulire.
(ben due dico due custodi seduti sui divanetti antistanti i gabinetti)
In verità ne abbiamo incrociato (dopo averlo tanto cercato) anche un altro.
E’ a lui che ci siamo rivolti per sapere perché oltre il Caravaggio non si poteva andare, perché vi era un cordone che impediva l’accesso al piano dove ci sono le opere d’arte contemporanea.
“E non si può andare, scatta l’allarme, ci sta la visita guidata, non ve l’hanno detto in biglietteria? Una alle tre e mezza e una alle cinque e mezza.”
E no che non ce lo hanno detto in biglietteria.
Penso che si riferisca a questa cosa qui, scoperta dopo, naturalmente.
Ma anche ammesso, chi non vuole fare la visita guidata, perché non dovrebbe visitare il museo? Mica c’è scritto che saltando la visita guidata viene impedito l’accesso alle sale.
“E scatta l’allarme, mi dispiace, mi dispiace che non ve l’hanno detto”.
Bah.
Boh.
Mi viene  un atroce dubbio.
(l’ho detto che la pinacoteca suscita cattivi pensieri)
E se per caso avessero pensato di cominciare a chiudere piano piano, che a farlo tutto insieme alle 19 e 30 diventa uno stress?
E se non ci fosse stato  manco un cristiano spelacchiato a seguire  la visita guidata, e se avessero pensato i custodi, tramortiti dal dolce far niente  mò sti scassacacchi ci devono far fare le guarattelle per acchiapparli pure all’ultimo piano e potergli dire  signori tra mezzora il museo chiude, meglio prevenire che rischiare di sfaccendarsi?
No, non è possibile. Sono trooooooppo cattivissima, e neanche creativa, non va bene.

Di certo chi voglia godere dell’esperienza di osservare in lungo e in largo, di profilo e a capasotto le straordinarie opere che a Capodimonte sono custodite farà bene a consultare spingolo spingolo il sito, a chiedere in biglietteria prima di addentrarsi.

Perché, pensieri cattivi a parte, ne vale davvero la pena. 

domenica 15 settembre 2013

Le notti bianche

Il protagonista di le notti bianche è un sognatore, un timido, un esiliato dalla vita sociale.
Eppure, come tutti i sognatori e i romantici, non disprezza gli uomini, il contatto umano, l’ammore.
Anzi, nonostante non parli con nessuno, non abbia amici, desidera  così ardentemente “l’altro”  che gli pesa la Pietroburgo vuota, coi suoi abitanti riversi nelle dacie in campagna a godersi l’arrivo della primavera, e si riduce a scambiare parole coi palazzi,  quasi fossero animati.
E’ così tanto bisognoso di “umanità” che,  incontrata una ragazza durante una passeggiata, complice un evento casuale,  attacca bottone.
Lui, il timido, l’esiliato.  
Le parla di sè, oibò, le tiene la mano.
(lui, il timido, l’esiliato, il sognatore)
Lei, Nasten' ka, ricambia le attenzioni.
E’ legata con una spilla da balia alla nonna, e da una promessa ad un uomo.
(Ahh, quanto è volubile l’animo delle donne, qual piuma al vento…)
Chi di sogno ferisce di sogno perisce:  l’eroe romantico  aiuta la fanciulla  a ritrovare l’antico e  non del tutto perduto amore  spingendola a scrivergli una lettera e recapitandogliela.
L’illusione di un amore possibile, anche se per una delle parti è solo un amore di ripiego  [chiodo schiaccia chiodo,  e che palla tutti quei " vi amo quanto vi amo vi amo come fratello perchè non vi amo quanto amo lui] è presto cancellata dalla disillusione. 
Tuttavia, quanta generosità, quanta bontà e riconoscenza, per tre notti di sorrisi e di strette di mano.
"Dio mio! Un intero attimo di beatitudine! Ed è forse poco seppure nell'intera vita di un uomo?..."
Risponderei con il cinismo che mi è proprio, sì, è troppo poco un attimo soltanto di beatitudine.
Proprio non sono una sognatrice.
[Nemmeno un cronopio, purtroppo per me, a volte un tantinello fama]
Comunque, anche se  non è stata una lettura di quelle che m’hanno fatto eco, una di quelle che mi hanno  rimbombato negli interstizi della mente e della panza,  con  piglio di burocrate mi tocca fare ammissione di originalità almeno su alcuni aspetti  del racconto: la scenografia ridotta all’osso, la presentazione  semi-monologante dei due unici personaggi  (Racconta! Ascolta!)  tale che il romanzo sembra aver  un impianto teatrale: la scena con il ponte, la scena con la panchina.
Il tutto funziona come una sorta di occhio di bue che sfonda le gabbie toraciche e le scatole craniche dei protagonisti: la donna mobile e il sognatore.

Però mi chiedo se non l'avesse scritto Dosto, ma che so, Novikov Aleksey cosa si sarebbe detto di questo libro, romanzo sentimentale.
Certo, alcuni temi della sua poetica  vi si intravedono in nuce, ma quanta distanza dalla produzione matura.
(il sognatore, così ben disposto verso l’umanità, mi pare un Aljosa imperfetto)
Non so.

Forse è tutta una questione di archetipi (o di condizionamenti).

giovedì 5 settembre 2013

12 uova e un filo(che) di memoria

Sembra  un’assurdità trasformare un evento tragico come l’assedio di Leningrado  in una avventura rocambolesca, poetica e anche ironica,  in una formidabile storia di amicizia e di amore. 
(e di amore per la vita). 
David Benioff ci è riuscito. 
E’ un giovane scrittore e sceneggiatore americano di origini russo/ebraiche. 
Sua è anche la sceneggiatura di X-Men le origini – Wolverine. 
(urca, Logan) 

Due vite in cambio di 12 uova da trovare in meno di sei giorni, una missione che pare impossibile in una Leningrado assediata dai nazisti,  stremata dalla fame,  ridotta a sciogliere le coste dei pochi libri sopravvissuti alle stufe per ricavare dalla colla delle  stecchette dolciastre; una città dove tutto fa brodo – anche la carne umana- , pur di mangiare. 
Tzè,  12 uova fresche. 
Lev, di padre scrittore portato via dalla polizia segreta russa, e di madre e sorella sfollate, ha solo 17 anni.
Un ragazzino, ebreo, per giunta,  che gioca a fare la resistenza antiaerea sul tetto del suo palazzo. 
Kolja è di poco più grande, è un cosacco birbante e strafottente, un tombeur de femmes, ma anche il suo opposto – ah, il segugio nel cortile - ; è un soldato dell’armata, ma  il richiamo del pisello ( la cazzite va sempre curata)  che  gli ha impedito di ritornare in tempo al suo battaglione, lo ha trasformato in un disertore. 
Entrambi finiscono nel carcere sulla Neva, disertore l’uno, ladro di beni di cadavere tedesco piombato dal cielo l’altro.

I soldati muoiono e i civili anche, a meno che non siano figli di generali e di comandanti in capo. 
Quelli, i generali e i comandanti in capo,  hanno la pelle e la panza al sicuro sempre, e possono permettersi lussi inauditi, per sé e per i propri, e anche capricci,  come offrire a un ladro e a un disertore la possibilità di avere salva la vita se riusciranno a trovargli 12 uova. 
Nei brevi lunghissimi giorni che Lev e Kolja trascorreranno insieme alla ricerca del mezzo magico per guadagnarsi il passaporto dei viventi, ne vedranno e ne faranno che manco gli X-men (e chi ha veramente subito la guerra),  impareranno a diventare amici, anzi, a volersi bene;  uno dei due troverà l’ammore, una partigiana cecchina ( e rossa di capelli)  che avrebbe potuto insegnare a  Zajcev, l’altro invece... 

Il libro inizia con pagine che sembrano (sono?) autobiografiche. 
L’autore va a trovare i nonni e si fa raccontare di Leningrado. 
“Quando ha terminato il racconto, l’ho incalzato sui dettagli: nomi, località, condizioni atmosferiche di certi giorni. Lui ha tollerato fino a un certo punto, ma alla fine si è chinato in avanti e ha schiacciato lo stop del registratore. “E’ stato tanto tempo fa” ha detto. “Non mi ricordo com’ero vestito. Non mi ricordo se c’era il sole”.
“Volevo solo essere sicuro di non sbagliare niente.”
“Non sbaglierai”.
“Questa è la tua storia. Non voglio mandare tutto a puttane”.
“David…”.
“Ci sono un paio di cose che ancora non tornano…”
“David” ha detto, “sei tu lo scrittore, inventa”.

E ha inventato bene, proprio bene, perché nonostante il picaresco e lo humor,  la sensazione claustrofobica dell’assedio e delle sue conseguenze, lo sdegno e la rabbia per le prepotenze, la compassione per la sofferenza, quelli ci sono tutti.
Ma c'è Kolja.
Kolja, caro delizioso ragazzo, è davvero un  personaggio chiave,   pietra d’angolo  della vita che si erge al di sopra di tutto, anche  delle più orrende paure.  
L’alleggeritore dei drammi. 
(il tombeur continua a colpire)

Io non so valutare quanta invenzione e quanta realtà ci siano nel romanzo, e neanche me ne fotte.
Mi è piaciuto  assai abbastanza, questo libro "ammericano".
Mi piacerebbe però se davvero fosse nato così,  da un racconto del nonno su cui l’autore  ha fatto ricami. 
Per un attimo ho pensato che  se fossi stata una scrittrice avrei potuto ricostruire lo sbandamento dei soldati italiani dopo l’armistizio e la fuga attraverso le montagne e le pianure, per giorni, settimane, pur di tornare a casa, dalle mogli, dai figli, dalle madri, prendendo spunto dai radi e scarni racconti di mio nonno. 
Lui, uomo di mezza età con famiglia già numerosa a carico, indifferente alla politica e per natura ostile alle guerra, catapultato in Yugoslavia con un fucile in mano, quando l’unica arma che conosceva era la canna per soffiare il vetro,   che manipolava con maestria, facendo venire fuori dalla massa infuocata oggetti leggeri come l’aria, fu un soldato in fuga. 

E’ tardi, ormai per registrare la sua voce.

(E  ça va sans dire,   non sono una scrittrice)


mercoledì 14 agosto 2013

Della Provenza e oltre: Camargue. (6)

Provenza è anche Camargue, un’area compresa tra i delta del fiume Rodano: zona  di paludi, di acquitrini, di stagni, di laghetti, di  uccelli, di tori, di cavalli e di butteri e gitani.
(nonché di grandi e gustose magnate)
E’ un luogo “orizzontale”, dove  gli spazi abitati e naturali non comunicano tra loro secondo un criterio gerarchico.
Si succedono e scorrono, e basta.
Non riesco a tradurre in altro modo questa strana  sensazione che unisce la “piattezza” alla libertà.
Aigues Mortes è il baluardo occidentale estremo della Camargue (la piccola Camargue) , Port-Saint Luois du Rhòne è quello orientale.
Quanto diverse, le due cittadine.
Nel mezzo, Les Saints Maries de la Mer.
(quanto diversa, questa cittadina).

Aigues Mortes ha il centro storico  inscritto in una  fortezza del XII secolo.
Tranne le tre strade centrali, piene di negozi di souvenir e di ristoranti, per il resto è il mortorio dei sensi.
Fuori dalla fortezza, la città nuova e il fiume, lungo il quale sosta un esercito di piatti barconi ristoranti, di barconi/case galleggianti,  di barconi arrugginiti, di barconi da trasporto.
E di barconi/battelli  che portano i turisti verso l’esplorazione dei canali.
Però a non capire una mazza di quello che dice la guida che con microfono alla mano accompagna nella traversata, il paesaggio pare tutto uguale, una monotonia tale da conciliare il sonno, salvo un ridestamento improvviso quando tra i canneti  si intravede una costruzione, manco la piramide di Cheope.
(un silos per la conservazione del riso?)
La gita in  battello prevede una sosta per poter osservare da vicino tori e cavalli camarguesi.
Due butteri, in uno spiazzo all’aperto tra i canneti, danno prova  della loro abilità nel guidare i tori nel recinto.
I tori sono di una potenza esagerata, quando corrono.
Però che tristezza questi spettacolini, come pure l’unica casa tipica camarguese che si vede dal fiume, lasciata lì (o ricostruita lì) apposta per far contenti gli spettatori.
(non ci andrò più sui battelli che esplorano i canali del Rodano, ecco)
Molto meglio aggirarsi sui bastioni della fortezza, nonostante il sole a picco sulla capoccia, nonostante il caldo, chè da lì lo sguardo arriva fino alle saline e oltre.
(Anche le Saline sono visitabili, a pagamento naturalmente, 9 euro il prezzo per salire sul trenino).

Les Saintes Maries de la Mer è un paese spagnolo, nonostante si parli francese.
La foto, e si capisce immediatamente, non è mia.
Non mi ricordo da dove l'ho presa.
 Tori, corride, paella, le case basse e bianche,  la chiesa/fortezza.
E’ il  villaggio  dove a maggio si riuniscono tutti  i Rom per la festa di  santa Sara la nera, la serva delle Marie che danno il nome al paese,  la cui statua è nella cripta della chiesa.
Ha davanti a sé una spiaggia lunghissima, divisa dai frangiflutti in tante calette.
Il mare ghiacciato.
(un mare tanto basso quanto freddo)
E’ qui che ho realizzato ancora una volta che non sarò mai sola, che  non potrò mai staccarmi dalle radici.
Una voce, anzi, un urlo si staglia nel silenzio, proveniente dal mare, ad  una ventina di metri dalla riva.
“Pascàààà, può venì, ccà  l’acqua è cavura!!”

A Port Saint Louis du Rhone c'è una delle bocche del Rodano.
Gentilissime le impiegate dell’ufficio turistico.
(Italiana?- si vede forse dalla faccia, fatto sta che l’hanno capito al primo sguardo e  mi hanno dato la mappa della città e le brochure in italiano, le uniche e sole in italiano, roba che manco ad Arles e Avignone)
E’ un paese turistico di serie b, perché nell’immediata periferia vi è  un'enorme area industriale.
Però.
Che bell'effetto fa il fiume che si interseca con il mare, nella smisurata lingua di sabbia che è  la Plage Napolèon,  creando  pozze d'acqua, come  mari lunari.
Lungo la strada che conduce alla spiaggia, si intravedono stagni, e forse fenicotteri rosa.
Infilando un viottolo sterrato, nel tentativo di raggiungere i fenicotteri, ho incocciato nei pirati.
Qualche bella casetta in pietra, qualche baracca, qualche ibrido tra casa in pietra e baracca.
Su alcune di queste nascoste case  sventola la bandiera del Jolly Roger.
Gli sguardi che si incrociano non invitano a restare.
(ma io ci resterei volentieri)

Anche dall’altro lato del paese, quello vicino al porto, c’è uno spazio enorme di riva.
Larghissima.
Qualcuno vi passeggia,  e chi guarda da lontano  ha la sensazione che quel qualcuno  stia camminando sulle acque, come Gesù Cristo.
E’ bellissimo.

Port Saint Luois e  Salin de Giraud sono paesi quasi dirimpettai. Il Rodano li divide. Per evitare di fare un giro lunghissimo, e arrivare da una sponda all’altra, si  può prendere un traghetto.
Chi ha l’abbonamento al mezzo di trasporto ha la precedenza nell’imbarco.
Gli altri pagano 5 euro ad auto (i pedoni e le bici passano gratis).
In tre minuti si è all’altra sponda del Rodano.
Saline de Giraud come paesello non ha grandi attrattive, ma ha appunto ha le saline.
Saline di Giraud
E l’ufficio turistico.
(Hanno uffici turistici in ogni pizzo, i francesi.)
Per vedere le saline c' è un punto di osservazione panoramico.
Un tempo, dice l’impiegata, anche lì c’era un trenino che permetteva ai visitatori di compiere un giro tra le vasche e le montagne bianche.
(ma preferisco così, la verità proprio)
Le saline hanno delle vasche completamente violette.
Chissà perchè.
(vabbuò, sicuramente qualche fatto di chimica, ma chi se ne fotte, si ammira uguale senza competenze)
Nell'ufficio turistico di Salin, l’impiegata è la prima e unica che parla bene l’italiano.
Una delizia, comprendere le indicazioni. E poi la signora è garbatissima, prodiga di spiegazioni e di suggerimenti
Peccato averla incontrata solo alla fine del viaggio, però.
Però.
Le ho detto della bellezza della plage Napoléon a  Port Saint Louis. Non ci era mai stata.
( Come uno che sta a Mergellina e non sa com’è Posillipo, più o meno).
Anche qui abbiamo una spiaggia molto particolare. Forse piace, forse no. Da vedere. Selvaggia in qualche modo. Non regolamentata.
E' la spiaggia di Pièmanson.
Anche questa foto non è mia. 
Un accampamento incredibile di caravan, tende, roulotte, furgoni, parcheggiati  direttamente sulla spiaggia,  cominciando da un centimetro dall’acqua, ingombra lo spazio per quanto è lungo l'orizzonte.
Pare  mappatella beach solo che al posto degli ombrelloni e delle sdraiette e degli asciugamani ci stanno camper caravan e tende.
Fa  strano vedere la signora coi capelli azzurrini che fa il cruciverba sulla seggiolina all’ombra della tenda della sua roulotte,   tutta sistematella,  accanto ad un camper con annesso recinto un cui si ergono i giochi per i bambini – privatizzazione di sabbia pubblica - , di sguincio ad una coppia di camper con tendone comune e tavolini apparecchiati posti  al fianco di un furgone a uso di camper abitato da ragazzi dall’aspetto  sciammannato.
Si avverte un senso di promiscuo e di disordine incredibile.
Proprio in riva al mare, che non si vede, si può solo immaginare, data la barriera di lamiere che gli si para davanti.

Fuori rotta e fuori dalle Camargue c’è  Martigues.
È di fatto il porto turistico dei marsigliesi.
Una città enorme e moderna che sarebbe potuta essere un bijou, invece è una città vassalla.
Il centro ê un'isola, con pochissimi ristoranti e niente souvenir.

Era un villaggio abitato da pescatori, l'isola, il centro.
Però anche  di qui conserverò il ricordo di qualcosa di strano, di anomalo, di mai visto: la  spiaggia fatta tutta da gusci di cozze e frutti di mare.
Solo gusci, nè sassolini nè poseidonia nè alghe né sabbia né pietre né scogli.
Un fondale di scorze.


Il viaggio è finito.
E’ un peccato, ma anche no.
Se non si torna, capace è che non si abbia poi l’immediato desiderio di ripartire.



In ordine, le tappe precedenti:
*il Verdon
*la piana della lavanda
*la terra delle ocre
 Arles e Les Baux
*  Avignone e Nimes


lunedì 12 agosto 2013

Della Provenza e oltre: Avignone e Nimes (5).

Avignone - bastano  briciole di reminiscenze scolastiche sulla  storia medievale - è  associata ai papi.
Era la città dei papi. 
D’istinto si pensa a severità e austerità, rigore e magnificenza. 
Ora è la città del teatro. 
Questione di mazzo, mica lo sapevo prima che a luglio vi è il festival del teatro. 





Avignone mi è parsa così: gggiovane, briosa, vivace, alternativa.
Il grande boulevard  affollatissimo,  un fiume di gente tanto che pareva di stare ad una   manifestazione, con frequenti  ingorghi causati da soste attorno  ad  artisti di strada, giocolieri, musicisti, attori travestiti o ”in borghese” che pubblicizzano il proprio spettacolo, locandine teatrali appese su ogni pizzo, legate da cordoncini di spago: sui muri dei monumenti, sui pali dei semafori, tra una ringhiera di balcone e un’altra, sugli alberi e sui cassonetti dell’immondizia. 
Ho incocciato persino l’uomo sandwich che portava in giro sul cartellone la propria faccia, essendo di pirsona pirsonalmente il  protagonista di una  pièce teatrale. 
Oltre ai millanta piccoli teatri   sparsi un po’ dovunque in città e nei dintorni,  c’è anche il multisala, un edificio che ospita in contemporanea (proprio come i cinema multisala), almeno una decina di spettacoli teatrali.

Dunque, se si vuol visitare Avignone, occorre tener presente che luglio è il periodo migliore, anche se penso che lo spirito “alternativo” in qualche modo abbia contaminato definitivamente il luogo.
Ecco, ad esempio, mi è suonato strano (ma può darsi sia una prassi diffusa e comune anche altrove, sono ignurante) che le severissime stanze del palazzo dei papi possano accogliere  una mostra di arte contemporanea, “Le Papesse”. 
Il link della mostra è questo.


E’ risaputa la mia caproneria nei confronti dell’arte contemporanea,  e di certo anche stavolta non ho potuto fare a meno di pensare, eccheccazz, ma che roba è.
Mi riservo, una volta finito il diario di viaggio a puntate, e quando  l’ispirazione si sarà impossessata di me,  di dare il mio intuitivo contributo alla scoperta dei sensi riposti in opere di grandissimo impatto emozionale e cerebrale, come queste:

Un uomo

Princi-pressa

Animae
(i titoli delle opere non sono reali, ma illegittamente da me medesma assegnati)


Nimes è una città fuori rotta, ovvero amministrativamente non fa parte della regione Provenza, Alpi e costa Azzurra, ma di Linguadoca- Rossiglione, pur essendo affine, per moltissimi  versi, ad Arles.
E’ conferma di  quanto la questione  dell’artificiosità dei confini amministrativi,  che vale in Italia come in tutti gli altri posti del mondo, sia sempre tale.

Anche a Nimes c’è il colosseo in miniatura – pare che sia quello meglio conservato tra tutti gli anfiteatri costruiti dai romani – e anche qui viene usato come  spazio per manifestazioni e spettacoli, tra cui le corride. 
A Nimes, visitata in poche ore,  ho percepito un senso di grande orgoglio cittadino (noi simm ‘e meglio, tanto per intenderci).
Sarò stata condizionata dal film in 3 D visto alla Maison Carrée, dove in 22 minuti viene ripercorsa la storia di Nimes attraverso le figure dei  suoi migliori cittadini (insomma, 4 o 5 dall’età romana ad oggi).
L’ultimo è il torero Nimeño II, la cui statua in bronzo si staglia davanti all’anfiteatro. 


[Mi chiedo comm’è che gli amministratori napoletani non abbiano ancora pensato di erigere una statua di marmo di Diego Armando Maradona detto el pibe de oro davanti allo stadio di Fuorigrotta, anzi, in mezzo a piazza Plebiscito, re tra i re.]

Quello che davvero vale la pena di vedere a Nimes sono i giardini, e solo i più ardimentosi (lo sono stata!! Con la vertigine costante, la tachicardia, l’affanno, il cuore nelle orecchie, l’ho fatto!!) potranno spingersi fino alla vetta della Tour Magna, che della struttura  romana conserva solo parte degli  esterni,   mentre dentro c’è una spiralissima scala a chiocciola che porta in alto, su una sorta di piccola terrazza a mezzaluna,  da cui si può osservare  il panorama della città. 
(la prossima volta non lo faccio manco se pagano loro a me)
E' bello arrivare ai giardini percorrendo Quai de la Fontaine, un bel viale alberato tagliato da un canale in cui guazzano un cuofano di pesci.
Guardare i pesci, guardare gli alberi.
Guardarli con molta attenzione, magari mettendosi a testa in giù.


(fine quinta puntata e penultima puntata)