domenica 30 marzo 2014

Body Art


Pensavo di esserne fuori, e invece ancora mi capita di farmi fare fessa dal titolo (e talvolta ancora dalla copertina). 
Body art. Mi ero prefigurata dipinti o tatuaggi su ogni centimetro quadrato di pelle, uomini uccello e donne foresta, organi interni esposti ed esplosi sulla superfice dell’epidermide, ma anche percing, stiracchiature, cavicchi infilati in ogni dove,  contorsioni capaci di piegare e flettere pure le ossa sfidando le leggi di natura. 
Il pensiero non era completamente fuori luogo, dato che fortemente  mi erano  rimasti  impressi Moonman e i writers,  in Underworld, e  De Lillo ne parlava molto prima che la street art diventasse  fashion. 


Invece no. 
Ci sono un uomo e una donna (e un ectoplasma, più varie comparse). 
Lauren è un’artista (?) che usa il corpo per fare delle performance, Ray è uno scrittore  morituro. 
Gesti lenti, lentissimi, nella loro ultima mattina insieme. 
DeLillo Don - Body Art
“Perché mai la morte di una persona amata non dovrebbe portarti a una oscena rovina? Non sai amare le persone che ami fino a quando non scompaiono all’improvviso. “
Lauren  rielabora il lutto costringendo il corpo e la voce [e prima ancora la mente che produce il fantomatico omino, Mr. Tuttle], a riempire la casa di cloni di sé e  del suo uomo scomparso, attraverso la registrazione, la ripetizione e iterazione delle frasi pronunciate  l’ultima mattina – pulisco io - , delle loro frasi banali, e portando fuori, in una performance camaleontica, il suo dolore. 
“- Forse l’idea è quella di considerare il tempo in modo diverso – dice lei dopo un po’. – Fermarlo, o prolungarlo, o spalancarlo. Fare una natura morta che sia viva, non dipinta.

Tentativo vano.

La performance di  Hartke comincia con una vecchissima donna giapponese al centro di un palcoscenico vuoti, che si produce nei gesti stilizzati del teatro No, e finisce settantacinque minuti dopo con un uomo nudo, emaciato e afasico, che tenta disperatamente di dirci qualcosa.

Ecco, a me questo libro  è sembrato un uomo,  neanche nudo, forse  emaciato e “in un certo senso”  afasico,  che tenta disperatamente di dire qualcosa, ma  ha ben poco da dire, e annaspa impietosamente. 

mercoledì 26 marzo 2014

I fratelli Singer e i fratelli Ashkenazi

Chissà se il rabbino Pinchas Mendl Zinge aveva “pre-visto” il destino per i suoi figli: il primogenito Israel Joshua  zapperà la terra, rimuoverà le zolle, getterà i semi, ma quando le piantine spunteranno sarà suo fratello  Isaac Bashevis  a raccoglierne i frutti, e il premio Nobel, e  Isaac  sarà pure il primo a comparire quando si digiterà  la stringa “Singer scrittore” in  un motore di ricerca nel web.  
Che strana storia curiosa, questa dei fratelli Singer (chissà quanto del carattere dei fratelli Ashkenazi corrisponde al carattere dei due Singer)
Entrambi scrivono di saghe familiari, famiglie ebree  sfilacciate dai moti della Storia.
I fratelli Ashkenazi (1936) e La famiglia Karnowski (1943) sono di Israel.  
La famiglia Moskat (1950), è di Isaac, il premio Nobel per la letteratura, che lo ha ricevuto con questa motivazione: 

per la sua veemente arte narrativa che, radicata nella tradizione culturale ebraico-polacca, fa rivivere la condizione umana universale"

Queste stesse parole  calzano a pennello anche al romanzo di Israel, I fratelli Ashkenazi, anticipatore di un modus narrandi e  per certi versi davvero profetico riguardo la   nube oscurissima che si stava per abbattere sul mondo ebraico.
(destini)

Il romanzo comincia con un esodo: colonne di  tedeschi che si trasferiscono ad est, in Polonia, perché la Germania non poteva più soddisfare tante bocche. 
E la Polonia, territorio frantumato, conteso, diviso, prosciugato, su cui tutto ciò che si costruisce sembra destinato a non durare, è lo scenario dove si svolge prevalentemente il racconto, che si snoda nell’arco di una sessantina d’anni, tra la seconda metà del 1800 e il primo ventennio del secolo nuovo. 
E' un  momento di passaggio, di transizione, di trasformazione, di mutamento (un esodo in senso lato) che  coinvolge non solo la comunità di ebrei chassidici di Lodz, la città di Abraham Hirsh Ashkenazi e dei suoi figli, ma tutta l’Europa: l’industrializzazione, i movimenti operai, i rigurgiti nazionalistici, i denti digrignati dei militari, la folle vuota  frenesia delle classi nobiliari, tutto segna il tracollo del mondo tradizionale sostituito da un vortice di incertezze, di instabilità, di caos. 
E’ del 1936, il romanzo. 
L’odio per gli ebrei è già tutto lì – il pogrom di Leopoli che anticipa quello ancora più tragico degli anni a venire – ma ancora più feroce è  l’arroganza dei potenti,  di qualunque religione e nazionalità.

Anche Max Ashkenazi era stato un potente.
(e arrogante) 
In modo diverso da suo padre, pio ebreo (lo studio del Talmud e la santificazione delle feste prima di tutto), in modo diverso da suo fratello, guadente e fortunato e generoso fin nel midollo. 
Max, ovvero Simcha Meyer, “un gran bugiardo, compra a poco e vende a molto”,  una mente votata al  guadagno, un purissimo capitalista, senza scrupoli di ordine  morale,  aveva totalmente rinnegato la cultura dei padri per abbracciare l’etica del profitto, ma alla fine viene travolto anche lui dall’onda cieca del destino.  
 “Polvere eri e in polvere sei tornato, e tutto ciò ch’è in te è polvere” 
La parabola di Simcha e degli Ashkenazi è la parabola di un mondo intero.

Tuttavia, più che le vicende della famiglia Ashkenazi, a me hanno fatto palpitare le vicissitudini dei sognatori puri di cuore, di Tevyeh e di sua figlia Bashke, e di Nissan sopra tutti,  una vita votata alla emancipazione dal sopruso. 
Dopo anni di prigionia, di lotta clandestina, di sonni perduti, di affanni, Nissan sembra vedere la realizzazione del suo sogno, ed è infine scacciato dalla Duma dai bolscevichi, come un cane…
Pure della sua lotta, completamente diversa da quella di Max/Simcha, resta cenere, polvere e cenere. 

C’è un senso profondo di amarezza in tutto il romanzo, che nonostante la mole corre veloce, perchè appassiona ed emoziona. 
Una bella lettura davvero, che oltre tutto mi  ha  permesso di conoscere molte cose sulla cultura ebraica (eh, manco sapevo che i cudilli che pendono ai lati del viso si chiamano cernecchi, ad esempio), sulla sua “eterogeneità”.

E comunque, pensando anche ai destini delle donne di questo romanzo, protagoniste e comparse – e nonostante la crisi e le incertezze dell’oggi, il domani buio - alla domanda dove  e  quando saresti voluta nascere, se avessi potuto scegliere? continuo a rispondere ancora più convinta “Qui, e ora. Nel mio tempo e nella mia Terra”. 

mercoledì 19 marzo 2014

Tempo di imparare

La storia è una sorta di pretesto, in questo libro sono più interessata allo stile, alle parole”.
Questa non è una frase tratta  dal libro, ma una frase che l’autrice pronuncia in un’ intervista a proposito del romanzo:*
Nulla vi è di più vero. 
Peccato che  la storia  tratti un tema delicato assai, il rapporto tra una madre e suo figlio disabile. 
(Va di moda la disabilità? Mi viene da dire occorre rispetto)
La Parrella de Lo spazio bianco non mi era dispiaciuta. 
Vi era un’attesa, un limbo, un frullo di pensieri che “ragionevolmente”  potevano definire il sentire di una madre abbandonata dal compagno e visceralmente sola a sostenere  il legame con il figlio, nato prematuro,   chiuso in un’incubatrice. 
Il sentire di quest’altra  madre, della madre di Arturo (e Ariel, il suo compagno che avevo in principio immaginato come una figlia maggiore, è solo una quinta, anche se  si deduce che non è assente affatto)  è autocompiaciuto e lezioso. 

Non ci credo che tutti soffrono, anche se lo so. Che il dolore è endogeno e non serve un Handicap per soffrire. Mi riesce difficile pensarlo perché invece io scavo di zappa un solco in questa terra arsa, scavo io, di zappa e di unghe, laccate unghie per tenere lontano il pensiero della morte (che fa giri sulla dentro la mia testa, si avviluppa, si decompone per poi riassestarsi in nuove forme. Loo fermo ancora, l’onda si placa un poco). E su questo fondale che rimane in cui non credo al dolore altrui pur ammettendolo, io scavo un solco profondo, un canyon lungo quanto tutto l’altopiano. Di là forse piove, e foreste si intrecciano a serpeggianti fiumi, di qua solo deserto e caldo, ma che sia chiaro.

Peccato che la Parrella non sia Michele Mari, né Gadda, né i millanta altri autori che fanno del linguaggio cesello, gioco  e soprattutto  significato, senso. 

(E’ Stefano Bartezzaghi a regalare la pagina più bella del libro, l’albero delle parole)




lunedì 17 marzo 2014

Il testamento Disney

Si legge  sulla quarta di copertina: "Paolo Zanotti è scomparso molto prima del suo tempo naturale. Fra i tanti inediti, brilla di una luce potente e gentile – com’era gentile e potente la prosa e la persona del suo autore – questo indescrivibile romanzo d’amore e di formazione, fra le poche vertiginose opere di fantasia che la letteratura dei nostri decenni abbia prodotto." 


La questione dei romanzi pubblicati postumi  mi lascia sempre un poco  interdetta. 
(penso allo scarabocchio di Queneau ripescato tra le carte e trasformato in libricino, Hazard e Fissile, tanto per dire).
Non è  il caso de “Il testamento Disney”, che ha una forma compiuta e organica, anche se non riesco a fare a meno di pensare che forse l’autore avrebbe potuto modificarlo ancora. 
E renderlo magari più ambizioso di quello che è. 
Zanotti era un saggista, sul romanzo e sul romanzesco ne sapeva abbastanza. 
E tanto ne sapeva su Calvino,  sicuramente uno  dei suoi riferimenti Primi.

Protagonista della storia è Paperoga,  alias Simone. 
E’ vicino alla trentennificazione, così come i suoi  amici Eta Beta, Gastone, Paperetta e  Pluto.  
(i trenta anni sono la soglia del cataclima)
Sono tutti  squattrinati, scumbinati, sognatori, e isolati. 
(disadattati)
Costituiscono un gruppo, un Club,  anzi, forse sarebbe meglio dire una setta, che vive lo spazio e il tempo  secondo dei  parametri totalmente surreali e bizzarri, e conserva i pensieri  - nulla di soggettivo, asseriscono - sul Quaderno del futuro montaggio. 
Pensieri così: 

Dal Quaderno per il futuro montaggio:

Serialità. E’ stato un attimo, come un’illuminazione. Paperoga, inesorabilmente lagnoso, ha chiesto: “Perché non riusciamo ad andarcene da Genova?” “Perché la location costerebbe troppo”. ha risposto pronto Eta Beta. A questo punto come non capire che il Club è un serial? E’ l’unico modo per spiegare tutto. Domanda: perché Zenobia è scomparsa? Risposta: perché l’attrice che l’interpreta era scappata con Kabir Bedi. D.: Perché Paperoga non ingrassa mai? R.: per contratto. D.: come fa Eta Beta a non dormire? R.: lo fa quando non lo riprendono. E così via: Paperetta l’hanno fatta andare a Milano perché l’attrice era incinta: Pluto lo recita un uomo perché con un cane era troppo difficile. Eureka!

Vivono in una stunt-town, in una città controfigura della Genova che è lo sfondo reale in cui si ambienta il romanzo. 
Il club attribuisce i nomi dei personaggio Disney a chiunque gli si pari dinanzi: una stunt-town popolata di qui quo qua, di basettoni, di gambadilegno, di papere e topastri.
L’ignoto – il mondo esterno -  ridotto e ricondotto al vocabolario dei miti d’infanzia. 
[e che piacere ritrovare Gualtiero, il raffreddore personale, comparso solo una volta in una indimenticabile storia di Paperino!]
I membri del Club Disney vivono in  un’isola che non c’è - la loro stunt-town - , e in fondo sono tutti dei peter pan, che traccheggiano per non affrontare la realtà.

“Qual è la realtà? Cos’è la realtà?” 
Eta Beta, il guru del gruppo, aspetta il gangarone, Pflip, e si accontenta di Pluto. 
Sarebbe molto più facile orientarsi nel mondo se ci fosse il gangarone,  che è capace di prevedere i pericoli e di accorgersi delle menzogne con il semplice fiuto.
Si potrebbe allora senza fatica districarsi nel mare untuoso delle leggende metropolitane, delle notizie riportate dai giornali , degli eldorado sommersi, delle apparizioni di Anna. 
Si potrebbe crescere senza fatica e senza inganno. 
Si potrebbe cogliere la vera natura di Ciccio.
Si potrebbe capire che fine ha fatto Anna. 
Anna è l’oggetto della ricerca  di Paperoga,  una Zazà amata di un amore adolescenziale, sparita nel nulla, ricomparsa nelle vesti di una zingara che ruba un bambino al supermercato . 
(ancora sulle leggende metropolitane)

Ma chi è veramente Anna? 
Non so ancora se sia veramente successo, né come sia potuto succedere, ma forse Anna è stata solo la prima di noi a passare dall’altra parte, a trovare la porta, a interrompere il proprio invecchiamento, a scegliere il mondo seriale dei fumetti dove niente si consuma: la candela la casa la bottiglia di latte. E probabilmente non manca nemmeno molto al momento in cui me la troverò davanti che mi fissa con occhi grandi e stellati da eroina di cartone giapponese. E, forse, sarà anche il momenti in cui mi chiederà di scegliere – io che mi ero sempre illuso di camminare sul confine – tra il mondo degli uomini e il suo.
Il club l’ha nomata Zenobia. 
Zenobia appare poche volte nei fumetti Disney: regina di uno staterello africano, trattiene un ambiguo rapporto sentimentale con Pippo. 
Perché Zenobia, mi sono chiesta. E mi sono chiesta se Zenobia fosse davvero l’amore perduto, o nascondesse altro.

E mi è tornata in mente  una de Le città invisibili di Calvino: 

… è inutile stabilire se Zenobia sia da classificare tra le città felici o tra quelle infelici. Non è in queste due specie che ha senso dividere le città , ma in altre due: quelle che continuano attraverso gli anni e le mutazioni a dare la loro forma ai desideri e quelle in cui i desideri o riescono a cancellare la città o ne sono cancellati.”

E’ dal giardino misura-del-mondo, dal club, dallo straripamento del fantastico che conteneva la sua eterna giovinezza  che Paperoga si allontana, finendo sotto i ponti,  nella enorme discarica e nel cimitero di Staglieno, dentro gli incubi cattivi e dentro la realtà che  è ancora  più cattiva. 
Ma se in Bambini Bonsai, il primo romanzo di Zanotti, il fantastico e  il romanzesco, i bambini che  “s’inventano dei riti attraverso gli sconvolgimenti” – come dice l’autore in un’intervista* - , sono al servizio di un’elegia dolce e malinconica del potere dell’immaginazione e del mondo dell’infanzia destinato a finire, in questo romanzo postumo il fantasioso suona di artificio, il gioco intellettualistico è fin troppo scoperto, il virtuosismo dell’invenzione  fine a se stesso. 

Bella letteratura  che spiazza, ma non  sedimenta né scalda.

(e neanche fa volare via sulle ali della leggerezza, della briosità, del sogno incantato)






mercoledì 5 marzo 2014

La fine non è nota.

Da altri luoghi si soffia sul fuoco che non ha avuto manco il tempo di diventare  cenere  assopita.
Chi era Goeffrey Holiday Hall, l'autore del libro "La fine è nota", la cui identità mi ha intrippato il cervello?


C’è chi dice di sapere chi si nasconde dietro lo pseudonimo di G. H. H.
G. dice che è lui, non c’è alcuno pseudonimo.
(ma chi sia stato, dove abbia abitato, che lavoro abbia fatto per vivere, etc etc, comunque resta un mistero)
L.  sostiene che “è scritto sotto pseudonimo da mia zia Mariuccia di cui solo io conosco il nome” (ma L. è uno sfuttitore).
Altri dicono che sia Faulkner (Faulkner? Forse per Jessie la Matta, e le colpe dei padri che ricadono sui figli, e la gente delle montagne, ma mi pare più probabile l’ipotesi che sia zia Mariuccia)
D. sostiene che sia Nabokov, la cui confessione autografa sarebbe apposta su copia della  prima edizione  in possesso di un libraio inglese.
(urgono esame grafologico, ed esame del palloncino  al suddetto Nabokov al fine di verificare il livello etilico)

V. invece rimanda palla a questo sito:


Insomma, il ragionamento fila ma fino ad un certo punto.
La foto è autentica, ma davvero è la foto di qualcuno che vuole a tutti i costi mantenere l'anonimato?
Ah, bei tempi quelli in cui il nome e non la faccia ti connotava!
(aspè, fammi vedere la foto e ti dico se 'o saccio)
Oppure è un tiziolaqualunque, appiccicato lì, che lo sapesse o meno, cosa importa, magari un immigrato  proveniente dall'est Europa, che non spiaccicava manco una K di inglese, che non avrebbe potuto rivendicare il proprio diritto all'immagine manco se l'avesse voluto, altri tempi, quelli. 
Risalire al fotografo, Gene Moore, per carpire informazioni, pure mi pare una cosa complicata assai.
(I morti non parlano. E anche se non fosse morto, insomma)
E la nota biografica potrebbe essere benissimo un insieme di notiziole fuorvianti e menzognere. 

Dunque, altro che pezzi del mosaico. Si è sempre al punto di partenza. 
Boh. 
E l'intrippo continua. 




martedì 4 marzo 2014

La fine è nota. (ma non sempre)

La fine è nota è un romanzo del 1949. 
Il suo autore, tale Geoffrey Holiday Hall, non esiste. 
E’ lo pseudonimo di un ignoto. 
Dunque è come se non esistesse, perché non si sa nulla di  chi si celi dietro questo nome.
E' una faccenda strana che mi intriga assaissimo perché è a tema con il libro. 

Il protagonista, il signor Paulton, tornando a casa trova un cadavere sfracellato sotto casa sua. 
E’ morto cadendo dalla sua finestra, mentre in casa era la moglie, la bella e giovane Margo, che riferisce al tenente Wilson di averlo fatto accomodare in quanto desiderava parlare con il coniuge: una richiesta urgente di aiuto. 
Paulton non conosce l’uomo, identificato poi come Roy Kearney. 
Un disertore, e come tale finito in carcere per 5 anni. 
E prima?
Diventa per lui un tarlo, un rovello: cosa gli avrebbe voluto chiedere? Che tipo di aiuto, perché?
Chi era Roy Kearney?  
Per Paulton diventa un’ ossessione cercare di ricostruire il suo passato, comporre i pezzi della sua esistenza per capire il motivo della sua fine, per comprendere  il principio della sua fine.

Chi sei, infine? L’uomo insignificante visto da Margo, il vagabondo senza pace di Jessie Dermond o il disperato animale in gabbia di Holtsinger? Qual è il tuo vero essere?

Paulton e Kearney non hanno nulla in comune, tranne…. E cazz, non si può dire.

Ritmo serrato, belle caratterizzazioni dei personaggi (Cervello sopra tutti), e una corsa avviluppante a scoprire i perché. 
E’ solo alle ultime pagine che si scioglie il busillis.  
Oh, se fosse dato all’uomo di conoscere la fine di questo giorno che incombe! Ma basta che il giorno trascorra e la sua fine è nota”. 
Oppure, basterebbe dare peso a cose che sembrano insignificanti. 
Niente è davvero insignificante. 
Nessuno lo è. 
[Come è difficile intuire la vera natura delle persone che ci circondano.] 

Sciascia nella postfazione all’edizione del 1989, definisce la vera identità di G. Holiday Hall “un piccolo mistero che sarebbe divertente risolvere”.[Chi sei, G. Holiday Hall?]
Potrebbe anche esservi una donna,  dietro questo pseudonimo. 
In questo caso, potrebbe aver voluto togliersi dei sassolini dalle scarpe. 
Oppure  potrebbe essere Alfred Hitchoch in pirsona pirsonalmente, a cui non so perché, il libro, costruito in modo “cinematografico”, mi ha rimandato.
La  fine nota è il suo romanzo,  e mannaggia la miseria, quanto sarebbe divertente conoscere il principio  e la sua fine. 
Se fossi uno storico della letteratura, un critico, un intellettuale, me ne farei un’ossessione.






e poichè le ossessioni sono cose serie, continuo qui: la fine non è nota