lunedì 16 giugno 2014

Il castello dei destini incrociati

"Il mondo non esiste - Faust conclude quando il pendolo raggiunge l’altro estremo, non c’è un tutto dato tutto in una volta: c’è un numero finito d’elementi le cui combinazioni si moltiplicano a miliardi di miliardi , e di queste solo poche trovano una forma e un senso e s’impongono in mezzo a un pulviscolo senza senso e senza forma, come le settantotto carte del mazzo di tarocchi nei cui accostamenti appaiono sequenze di storie che subito si disfano." 

La citazione è tratta da “La taverna dei destini incrociati”, il secondo dei due  testi che compongono il volume “Il castello dei destini incrociati”
La citazione ben rappresenta, secondo me, il senso ultimo del libro. 
(Il senso ultimo della nostra esistenza.) 

Come in molte altre opere  di Calvino  (il pensiero giunge immediato a “Il sentiero dei nidi di ragno”) , la nota dell’autore è fondamentale,  perché non è solo prefazione o postfazione, ma ha una connotazione  a raggio molto più ampio rispetto al testo  che  vuole  di-spiegare:  è  racconto di un’esperienza, è riflessione personale oltre che metaletteraria.
Erano gli anni dello strettissimo connubio con  l’OuLiPo;   erano tempi di sperimentazioni stilistiche: l’apice della letteratura combinatoria.

Le due parti che compongono il libro [matrici di ogni gioco di scrittura creativa, di cui sono piene ormai anche le  antologie per ragazzi - costruisci una storia combinando almeno 6 dei seguenti 10 elementi], sono  un insieme di storie costruite utilizzando le interpretazioni che la successione di tarocchi  offrono:  nel Castello e nella Taverna dei destini incrociati,   i viandanti  che ivi si ritrovano dopo aver peregrinato nei boschi, hanno perso la parola  e,  scegliendo dal mazzo di carte le figure e i simboli che costituiscono i segmenti della loro storia, la “raccontano”.
Gli astanti – il narratore -  la “decodificano”.
Nel Castello il mazzo di tarocchi su cui si fondano le storie è quello miniato da Bonifacio Bembo per i duchi di Milano nella metà del 1400, mentre nella Taverna  le “tessere” del mosaico sono costituite dai tarocchi marsigliesi, molto più popolari e diffusi.
Stante la mia ignoranza assoluta riguardo i tarocchi, arcani minori e maggiori e compagnia cantando, posso affermare che poco importa conoscerli ai fini della comprensione del testo: sono “immagini/segno”  la cui combinazione  genera significati diversi che vengono tutti esplicitati nel racconto. 

Nelle intenzioni di Calvino, al Castello e alla Taverna sarebbe dovuto seguire il Motel dei destini incrociati,  le  cui tessere sarebbero dovute essere costituite da strip (destrutturate) di fumetti. 
(il linguaggio figurativo della modernità)
Come le matrici dei segmenti delle storie sono diverse, diverso  è lo stile: 

La taverna  poteva  avere un senso solo se il linguaggio dei due testi riproduceva la differenza degli stili figurativi tra le miniature raffinate del Rinascimento e le rozze incisioni dei tarocchi di Marsiglia. Mi proponevo allora d’abbassare il materiale verbale, giù giù fino al livello di un borbottio da sonnambulo. Ma quando cercavo di riscrivere  secondo questo codice pagine su cui si era agglutinato un involucro di riferimenti letterari, questi facevano resistenza e mi bloccavano.”

Echi letterari. 
Soprattutto l’Ariosto (la lettura dell’Orlando Furioso di Calvino è  del 1970), ma anche Boccaccio (la  storia/cornice  che contiene le storie), e rimandi ad  altre opere  dello stesso Calvino, in particolare al  Le città invisibili,  edita nel 1972.
Calvino non porterà a termine il progetto di completare il ciclo dei destini incrociati con il motel.
Il  mio interesse teorico ed espressivo per questo tipo di esperimenti si è esaurito. E’ tempo (da ogni punto di vista) di passare ad altro.
Dopo Le città invisibili, una vera punta di diamante, penso proprio che sia impossibile dargli torto. 

Il Castello dei destini incrociati non  aggiunge molto al valore complessivo della produzione letteraria di Calvino.
Tra i due testi che lo compongono  ho preferito di gran lunga la Taverna: nonostante “la resistenza dei riferimenti letterari”, la materia narrata è più “terrestre” e al tempo stesso più suggestiva. 
Ho trovato bella  la Storia dell’indeciso,  di cui riporto un breve passaggio    (galoppa, pensiero, galoppa): 

"...ogni scelta ha un rovescio cioè una rinuncia, e così non c'è differenza tra l'atto di scegliere e l'atto di rinunciare."

Interessante  è la confessione di Calvino,    un po’ triste, amarognola e  sconsolata,  sul suo mestiere di scrittore, nella storia “Anch’io cerco di dire la mia”.
I tarocchi della sua storia sono il Re di bastoni,  il Due di Denari e  le coppe, che “non sono altro che calamai prosciugati aspettando che nel buio dell’inchiostro vengano a galla i demoni  le potenze infere i babau gli inni alla notte i fiori del male i cuori della tenebra, oppure vi plani l’angelo melanconico che distilla gli umori dell’anima e travasa stati di grazia e epifanie.
E della sua storia dice: 
Scarta un tarocco, scarta l’altro, mi ritrovo con poche carte in mano.  Il Cavaliere di Spade, l’Eremita, il Bagatto (…).  Per sentieri d’inchiostro s’allontana al galoppo lo slancio guerriero della giovinezza, l’ansia esistenziale, l’energia dell’avventura spesi in una carneficina di cancellature e fogli appallottolati. E nella carta che segue mi ritrovo nei panni d’un vecchio monaco, segregato da anni nella sua cella, topo di bibioteca che perlustra a lume di lanterna una sapienza dimenticata tra le note a piè di pagina e i rimandi degli indici analitici. Forse è arrivato il momento d’ammettere che il tarocco numero uno è il solo che rappresenta onestamente quello che sono riuscito a essere: un giocoliere o illusionista che dispone sul suo banco da fiera un certo numero di figure e spostandole, connettendole e scambiandole ottiene un certo numero di effetti.

Non è uno dei migliori libri di Italo Calvino: è  interessante, ma non bello.  
Solo per Calvinisti convinti.



giovedì 12 giugno 2014

Una cosa divertente che non farò mai più.

Anche io l’ho fatta, la cosa divertente (?) che non farò mai più.* 
Certo, le nostrane  MSC e Costa devono sembrare proprio le sorelle cenerentole in confronto alla motonavi della Celebrity Cruise, (non so se biasimare o meno  la iperproletarizzazione della grande illusione    -  in fondo il maumau che si fruscia  di essere lo sciàdipersia concretizza lo stesso finto sogno del pensionato middle class americano).

Devo riconoscere una certa affinità di pensiero tra me e Wallace (mi preoccupo?), soprattutto rispetto al carnevale dell’organizzazione tutta. 
L’obiettivo primo delle crociere  è lo spillamento di soldi ai polli,  ma  la riflessione di Wallace si spinge fino a cercare di capire su quale leve agiscano le compagnie per far cadere i polli in trappola: non si può negare che la crociera extra lusso di massa  abbia  l’ambizione di generare nel cliente la sensazione di rimuovere  preoccupazioni e pensieri, pianificando ogni  secondo  della giornata  - e addolcendolo con la coccola – il cioccolattino alla menta sul lenzuolo ben ripiegato ** - la premura e  i sorrisi finti. 
La parola chiave è deresponsabilizzazione.
L’organizzazione della crociera fa  attivare  dei meccanismi di assoluta regressione, fino ad  una dimensione quasi a-logica. 

E’ per il consumatore il ritorno nel grembo materno.
(l’allontanamento dell’idea della morte)  

 “Alla fine della settimana, dopo  che abbiamo avuto ogni tipo di tempo, capisco perché con il mare grosso si dormiva così meravigliosamente: il dondolio del mare grosso ti culla, la spuma delle onde ti fa sshhh dall’oblò, il rumore del motore è il battito del cuore della mamma.”

“La Grande Gigantesca menzogna delle crociere è che è possibile mantenere la promessa di soddisfare “il NEONATO Insoddisfatto (…) la parte che in ogni momento e indiscriminatamente VUOLE”

Magnatoria, intrattenimento, escursioni, pulizia invisibile e continua, servitù, accudimento. 
[Su una nave da crociera la Grande Menzogna si esplicita  in misura  maggiore rispetto ad un  Resort a trentamila stelle “all inclusive” situato sulla terraferma?]
Wallace compie il suo viaggio  a bordo  la motonave Zenith, da lui ribattezzata Nadir, nel Marzo del 1995.
(la Zenith, forse per il miliardo di secce che le sono piovute addosso, è stata danneggiata da ben due incendi:  il primo nel 2009  -  rimessa a nuovo è stata  venduta ad un’altra compagnia di navigazione – il secondo  nel 2013  al largo di Venezia. *** 

Il reportage (anzi, un po’ reportage, un po’ saggio, un po’ diario personale) comincia dal ritorno dal viaggio, durante l’attesa dell’aereo che riporta at home:  Wallace fornisce della sua esperienza “volontaria e retribuita”  un resoconto  meticoloso, puntiglioso, corredandolo  di ben più di un centinaio di note che non sono  vere e proprie note esplicative bensì stralci di pensieri in  parentesi (che a loro volta possono aprirsi in ulteriori parentesi).
Qualcuna: 
Nota 129:  (questi piattelli erano fatti, credo, di una sorta di argilla iperfriabile  per ottenere il massimo della frammentazione)
Nota 116:  Dio mi è testimone: non mangerò mai più frutta in vita mia.
Nota 130:  !

L’occhio di Wallace funziona come una sorta  di lente di ingrandimento o di zoom su ogni dettaglio (ai limiti della paranoia), come in questo passo in cui confronta, all’àncora,  la nave da crociera Nadir con un’altra ancora più lussuosa.
La Dreamward  è di un bianco accecante, così bianca che sembra quasi aggressiva e fa sembrare il bianco della Nadir più beige chiaro o crema. Il muso della Dreamward è più allungato e sembra più aerodinamico del nostro, le finiture dono di un pesca fosforescente e anche gli ombrelloni sulle piscine del ponte 11 sono color pesca – i nostri ombrelloni sono arancione chiaro, cosa che mi è sempre sembrata strana, considerato che i colori della Nadir sono il bianco e il blu, e ora mi sembra una cosa improvvisata e misera. La Dreamward ha più piscine di noi sul ponte 11, e in più c’è qualcosa che al di là del vetro sembra un’altra piscina sul ponte 6; e il blu delle loro piscine è proprio quel blu del cloro – le due piccole piscine della Nadir sono di un colore all’acqua di mare e un po’ sbiadito, anche se nelle brochure Celebrity, erano viscidamente proprio di quel blu-cloro elettrico.”
(mi sembra di sentir parlare Forrest Gump. Ed è particolarmente interessante l’uso del possessivo: nostro – è un pronome inclusivo -  e loro.)

L’occhio di Wallace è ipercritico,  ma è anche un occhio “disturbato”. 
Wallace  è feticista verso gli squali (selacofobico, direi),  ha il terrore di essere risucchiato dallo scarico del water, si definisce semi-agorafobico  e caproscopofobico,   e queste ultime sindromi lo costringono ad evitare  gli sbarchi per  le escursioni,  sicchè non scende mai dalla nave ed evita assembramenti, folle, intruppamenti, tranne che nella giornata del 16 marzo, in cui l’autore effettua la  full immersion nelle attività – bisognava pur relazionare sul “divertimento” offerto dalla compagnia - , esperienza dalla quale non si riprende più, passando gli ultimi due giorni della crociera chiuso in cabina.
Wallace  era un ingrippo fatto uomo.

[mi chiedo se, per poter “indagare” il fondo delle cose, sia meglio possedere una grande capacità di distacco e  una freddezza mostruosa o al contrario essere ipersensibili]

Sapendo come è andata a finire, a me non ha fatto  ridere il suo racconto. 
Mi ha fatto un’enorme tenerezza. E tristezza. 

Io mi sentivo disperato. Ormai è una parola abusata e banale, disperato, ma è una parola seria, e la sto usando seriamente. Per me indica una semplice combinazione – uno strano desiderio di morte, mescolato a un disarmante senso di piccolezza e futilità che si presenta come paura della morte. (…) E’ più come avere il desiderio di morire per sfuggire alla sensazione insopportabile di prendere coscienza di quanto si è piccoli e deboli ed egoisti e destinati senza alcun dubbio alla morte.” 



*    Nota 1: Il link del resoconto della Crociera ai fiordi norvegesi 

**  Nota 2: mi è venuto in mente un atto di premura ricevuto sulla chiatta da crociera sul Nilo**** che mi fece  cacare sotto dalla paura: entrando nella cabina al buio, due ombre sul letto, abbracciate. 
Marò, e chi è trasuto?? Chi cazz so??????
Il piccolo di camera aveva fatto indossare ai  cuscini  i nostri pigiami, e li aveva teneramente avvinti e posizionati verticalmente sul letto.
Mavvaffàncapa.


**** Nota 2/a : Della crociera sul Nilo, effettuata millanta anni fa su una barca di dimensioni assai modeste, una ventina di cabine, molte vuote (totale degli ospiti di varia nazionalità: 22), ho un ricordo bello, invece. 

lunedì 9 giugno 2014

Giulia 1300 e altri miracoli.

Io: - Ma secondo te, si può definire Giulia 1300 e altri miracoli un "libro dedicato all'amicizia"?
Lui: - Come definizione non è la più calzante, secondo me, anche se può starci.
Io lo definirei più come "libro dedicato a chi ne ha le palle piene, a chi vuole fuggire dai consueti schemi della quotidianeità e cerca - o spera - in un riscatto che possa dare un senso, il più semplice e genuino, alla propria vita".
E ci pensavo a questo scambio di battute. 
Diventa difficile dare un senso, o anche solo "riscattarsi",  rimestando nella stessa pastura di “amicizie” e nello stesso acquario nel quale, come pesci – muti anche – si ci trova a sguazzare. 

Cambiare vita, cambiare aria, cambiare. 
Se dietro tutte le proposte (le mie, anche) “molliamo ogni cosa  e ci apriamo un agriturismo”, fossero seguiti i fatti, non ne resterebbe neanche uno, di casale catapecchia stalletta. 
Diego, la voce narrante dominante, venditore (ex) di auto, uno "sfigato" agli occhi degli altri, così pensa prima di cominciare l'avventura:
“E’ il miraggio di una vita migliore, più sana, con più tempo a disposizione. Più tempo per pensare e scoprire che sei infelice lo stesso, che il lavoro non c’entrava  un cavolo e nemmeno la città: hai traslocato e la prima cosa che hai messo in valigia sono stati i tuoi problemi.”
Eh, di questo ne sono convinta. 
Però capitano i miracoli.

Giulia 1300 e altri miracoli è esso stesso un piccolo miracolo: raramente capita di leggere un’opera prima così godibile, scoppiettante e briosa, leggera ma non vacua.
Diego, Fausto e Claudio, cooprotagonisti, in fondo  sono tutti  degli “sfigati” (per gli  occhi dei paesani sono tutti  semplicemente  “ricchiuni”).
Si ritrovano  nelle campagne del casertano attratti da un annuncio immobiliare: un casale con terreno annesso, luogo ideale dove far sorgere un agriturismo e una nuova prospettiva di vita. 
Lo  acquistano  insieme, tre estranei che sembrano animali di specie diverse. 
Dopo qualche tempo al terzetto si aggiunge Sergio,  che in ruvidezza, capatostaggine e impulsività si magna il mondo sano.
(je l'adore!!)
L’alacre lavoro di ristrutturazione attira i camorristi: è noto  che in certi luoghi anche le pulci per zompare devono avere la “prutezione”.
Ma c’è chi dice no. 
Da questo momento in poi la narrazione ha delle impennate  davvero sorprendenti.
Entrano nel gioco l’autoctono Vito, il ghanese Abu, principe guerriero temporaneamente raccoglitore di pomodori con i suoi due amici Samuel e Alex, ed Elisa,  la scompaginatrice di arredi, di menù e di cuori. 
E naturalmente la Giulia 1300,  grazie alla quale  l’agriturismo vivrà momenti di vera gloria e fama. 
Val la pena di leggerlo, il libro di Bartolomei, è davvero un’oasi dove si può coltivare il sogno di una vita diversa, sorridendo. 
(e dove gli echi della vita reale assumono tutt'altro peso, la strage di Castelvolturno, ad esempio).

Tornando alla questione iniziale, se può essere considerato un libro sull’amicizia, mi viene da dire che sì, lo è. 
Perché non è l’agriturismo in sé a porsi come motore del cambiamento. 
E’ il condividere un progetto “buono e bello”, trasformare l’idea in fatti, in cosa, è mettere dietro le spalle i vuoti e riempirli di bellezza.
Da soli, da soli è impossibile.
(i pensieri vecchi non si scollano)
E’ aprirsi a persone che immaginavamo anni luce lontane da noi e osare sfaldare la crosta di abitudini, di pre-giudizi, è mettersi a nudo dalle menzogne anche quando vengono solo usate a scopo di difesa.
Io, se in questo momento mi guardo attorno devo dire che i miei unici amici sono un negro e un camorrista!”. Beve malinconicamente un’altra sorsata. “Esclusi i presenti, certo”.
“Certo” dice Sergio.
“Certo certo” confermo. 
“Che poi c’è da ridere… un negro, un camorrista, due sfigati e un comunista del cazzo! Ma che è? Una barzelletta?”. 
Non è una barzelletta. 
E’ una cosa bella, invece. 

giovedì 5 giugno 2014

Lisario o il piacere infinito delle donne

A me Antonella Cilento sta antipatica. 
L’ho incrociata tre o quattro  volte, ma non la conosco di pirsona pirsonalmente.
(ci hanno pure presentate, ma insomma) 
Un’antipatia a pelle, istintiva, anche se non del tutto  irrazionale.
(ho le mie ragioni)
Non per masochismo  ho cominciato a leggere il suo libro candidato al premio Strega:  una persona a me cara me lo ha prestato chiedendomi un parere “spassionato”. 
(esticazzi) 
L’ho cominciato con le peggiori intenzioni, fremendo di piacere – un piacere infinito - al pensiero di farlo una munnezza. 
E mannaggia ‘a morte.
Nessun capolavoro, questo no. 
Ci hanno già pensato Ariosto e Cervantes, autori letti da Lisario, ragazzetta muta ma segretamente abilissima nella lettura e nella scrittura -  scrive lettere all’amichetta del cuore, ovvero alla Signora Santissima della Corona delle Sette Spine Immacolata Assunta e Semprevergine Maria - , e sicuramente studiati a fondo dall’autrice.
La Cilento, che da anni ha una  scuola di scrittura creativa, prende elementi  del  romanzo – storico, di cappa e spada, avventuroso,  surreale, biografico  – e ne fa una pastiche di non sgradevole lettura.
Belisaria o Lisario
Titolo e quarta di copertina sono fuorvianti, però.
Ambientato nella Napoli della metà del 1600, in piena età barocca, tra un Masaniello, una pestilenza e l’ambiente dei pittori ruotanti attorno a Ribera, il libro della Cilento ha come personaggio centrale – ma è sghembo, come il suo nome - Lisario, ovvero Belisaria. 
Figlia unica del comandante della guarnigione spagnola alloggiata nel castello di Baia, Lisario, come la Bella Addormentata, quando le cose non le garbano, s’addorme. 
Va in catalessi. 
(per giorni e mesi, eh)
Non è certo un bacio – mi pare troppa poca cosa, la verità – a svegliare la fanciulla, ma  sono ben  altre manovre. 
E’ il medicastro  Avicente Iguelmano che la risveglia, e come premio se la ritrova in moglie. 
Avicente si intrippa.
Ma si intrippa proprio malamente.  
Vuole scoprire a tutti i costi – se non si è capace di fare il chirurgo, che si faccia il ricercatore – i meccanismi del piacere femminile. 
Dunque, a questo arrivava la menzogna: la donna non solo fingeva quando aveva l’uomo in corpo, ma anche per l’uomo che guardava. Non c’era passione, non c’era presenza, in breve non c’era nessun desiderio da soddisfare. (…) Una trama di bugie che rendeva le donne vischiose come la sugna gli ricoprì l’intendere e il volere, le odiò tutte e e tutte le desiderò morte, per l’umiliazione che il loro esistere continuava ad infliggergli.

Lisario diventa così il primo oggetto della sua recherche, ma a  Belisaria “ – eccolo, dunque, il nome, scivoloso come un serpente alato, obliquo come il sator, ovvero rotas, palindromo del carro in fuga del desiderio – “ * ,  protofemminista sui generis, non piace  essere oggetto d’indagine scientifica, e invece che attraverso la  catalessi  –  colpo di fortuna – si sottrae alle frustrazioni e al disappunto grazie all’incontro con  un pittore, Jacques Israel Colmar – gli artisti realmente esistiti, Ribera, Giovanni Do, il maestro delle candele,  interagiscono con i personaggi di invenzione come Colmar  - , giunto a Napoli per sfuggire alle insidie di un altro pittore (Michel de Sweerts!!! Ma come?? Proprio lui lui???Possibile??? )  e alle sue stesse pulsioni omosessuali. 

Josè de Ribera**
Ah, l’amour, la passione, i desideri,  le ossessioni!

Ma quando l’Amato c’è, Signora, nascemi il Sole dai piedi, posso saltare il Mare, succhiare gli alberi dai prati e generare popoli di uccelli: così accade? Oh, come sembrano superflui ora i miei Libri, e anche lo ScriverTi mi sembra vano poiché Tutta ti prego mentre Amo!
Intanto, però, mi chiedo: sarà esagerazione?
(un tantinello, né)

L’indagine sul piacere femminile a questo punto lascia il passo ad altre faccende, riassumibili in ricerca e fuga, fino al disvelamento finale, olè, un colpo di scena che rimescola ancora i generi (sessuali, e non romanzeschi).

E’ un romanzo di buona forma, e fornisce sia  notarelle storiche (il malgoverno spagnolo, corruzione e miseria) che di folklore e costume (l’origine del culto delle capuzzelle dei morti*** o del sostantivo zoccola)  ma di poca sostanza.
Una  lettura di evasione, da cui ho tratto un malsano piacere. 
(e di certo non infinito)



* Del Sator e del quadrato magico non sapevo cippa, ma qualcuno si sarà appicciato le cervella a  furia di ragionarci sopra:


** Maddalena Ventura con il marito e il figlio - Josè de Ribera detto lo Spagnoletto


domenica 1 giugno 2014

La festa del Caprone

Che l’America Latina nel corso del ‘900 sia stata funestata da dittature e dittatori di ogni sorta è cosa risaputa.
Rafael Leónidas Trujillo Molina a Santo Domingo,  ad esempio.
(Quanto si sa?)
Per più di 30 anni, dal 1930 al 1061,  la sua figura ha dominato metà di Hispaniola.
Benefattore e padre della patria.
(tiranno e genocida, prima ancora che venisse coniato il termine,  di decine di migliaia di haitiani)
La pagina italiana di Wikipedia a lui dedicata mi ha impressionata: spicca la  mappata di onorificenze.
(patacche o medaglie, ma insomma)
Per il resto, poche notiziole,  tra cui “La Repubblica Dominicana venne comunque modernizzata con strade, ponti, acquedotti, scuole e con lo sviluppo di una rete sanitaria, prima del tutto inesistente. Trujillo cercò anche di combattere l'analfabetismo e di aiutare le molte famiglie povere del paese con una serie di sussidi statali.
E' il  "comunque"  che  mi irrita.

["Comunque Musulini facette tante  cose bbone, tenevamo ‘e porte aperte e nun traseva nisciuno” –   Ometto di  riportare la mia risposta]

A quale prezzo, "comunque".

Ho provato a consultare Wiki in spagnolo: tutt’altre informazioni.
Di parte, mi son detta.
Ma anche la pagina inglese di Wikipedia sul Caprone non nasconde atrocità e orrori.
Vabbuò.
Gli italiani son brava gente, le cose brutte tendono a rimuoverle.
(Santo Domingo è solo spiagge, palme e bei culi.
E neanche il romanzo La breve  favolosa vita di Oscar Wao, "comunque" gran bel libro,  dà appieno idea di cosa fu la dittatura di Trujillo)

Vargas LLosa - la festa del Caprone
La festa del Caprone è il romanzo di Mario Vargas LLosa che racconta, in una fisarmonica temporale che copre una sessantina di anni, l’era del Trujillismo.
L’ orrore, un orrore.
La componente “romanzesca” è data dalla figura di Uranita Cabral, figlia del senatore Augustin,  che a distanza di quasi 30 anni dalla morte del Caprone torna a Santo Domingo dopo esserne scappata, quattordicenne,  con la complicità di una suora del collegio in cui studiava.
Per il resto,  domina la Storia, e le molteplici voci dei protagonisti si intrecciano offrendo di un medesimo fatto una visione pluriprospettica.

Si entra  nella capocchia di un dittatore, poveraccio,  che pensa  di avere sulle spalle il “merito” di aver trasformato un paese (persino nella toponomastica), e  si sente sempre minacciato dai traditori, dai complottisti,  costretto a  occhi e  orecchie sempre aperte per cogliere il minimo sentore della caduta di tono della fedeltà e dell’asservimento, che si  rammarica (ma senza mai mostrarlo in pubblico)  perché la moglie Prestante Dama e figli sono  una zoza e di tutta la roba – roba mia – che ne sarà dopo - neanche i padri della patria sono  immortali - , e si dispera (ma senza mai mostrarlo pubblicamente e senza consentire che altri possano fare illazioni) perché a 70 anni la prostata  è fuori controllo (il dittatore si piscia sotto)  e “L’uccello che aveva rotto tante fichette non si rizzava più”.

E’ per questo, per l’inciampo del Caprone, che Uranita fugge.
Per scampare all’ira del dio morituro, e per punire suo padre (il suo paese) ,  venduto all’adulazione del tiranno.
Che munnezza di  uomo, altro che decorazioni e patacche.

Leggendo La festa del Caprone si penetra nella paura e nel coraggio della disperazione dei sette uomini che fecero parte del commando che la notte del  30 maggio 1961 uccise (e assafà!) la bestia; si vivono  i loro ricordi  ( le incertezze, gli  anni di rancori tenuti nascosti,  i drammi morali : “Io ucciderò Trujillo. Ci sarà perdono per la mia anima?”, dice  Salvador Estrella Sadhalà* detto il Turco, uno dei personaggi di maggiore spessore del libro, al nunzio apostolico a cui chiede conforto), li si segue nella prigione dove furono torturati,   si piange la loro morte.

Ci si  immerge nel viscidume dei calcolatori, degli enigmatici manovratori  freddi di sangue e di coscienza, che con un colpo alla botte e uno al cerchio tirano l’acqua al proprio mulino e sopravvivono alle loro  infamie, rivestendosi dei panni dei giusti;  si affonda  nella codardia che frega all’ultimo istante e trascina nel baratro ogni cosa.
(eh, Joaquín Antonio Balaguer , l’anonimo diventato  presidente dominicano per tre mandati, e José René Román "Pupo", che avrebbe potuto e invece)
Per non dire delle torture, e di Abbes  Garcìa, che si riciclò come seviziatore per Papa Doc Duvalier, nell'altra metà di Hispaniola.
(ma come si può, come si può)

La festa del Caprone fa compiere  un passo nel  comprendere come sia stato possibile (come è possibile) che “tanti milioni di persone, martellate dalla propaganda, dalla mancanza di informazioni, abbrutite dall’indottrinamento, dall’isolamento, spogliate del libero arbitrio, della volontà e perfino della curiosità con la pratica del servilismo e dell’ossequio, abbiano potuto divinizzare Trujillo.
(O altri suoi simili. I dittatori  hanno la stessa faccia)
E come sia stato possibile (come sia possibile) che abbiano potuto “Non soltanto temerlo, ma amarlo, come i figli possono arrivare ad amare i padri autoritari, a convincersi che frustrate e castighi sono per loro il bene”.

E mi dico, meno male che c’è chi dice no.


Comunque, e a qualunque costo.