Il gioco delle ombre cinesi era uno dei pochi che facevo coi
miei fratelli, quando il lumino rendeva meno buia la stanzetta, di notte.
Le ombre di aquila, coniglio, cane erano quelle che
intrecciando le dita mi venivano meglio.
Mi divertivo, io.
Non i miei fratelli.
L’aquila e il coniglio si trasformavano sempre in cane che magnava le loro manine.
Le ombre fanno paura, tranne quella mobile di Peter Pan.
Inquietano anche se
affascinano: appartengono al regno dell’indefinito.
Le ombre possono generare mostri.
Per questo è doppiamente straniante l’uso delle ombre che invece
fanno due artisti in cui sono incappata gironzolando su internet.
Anzi, più che straniante, intimamente angosciante.
L’ombra perde il suo connotato pauroso nel momento in cui si
riconosce l’oggetto che la genera.
Ciò non succede con le ombre “tranquillizzanti” di Tim e Sue,
ombre dai contorni riconoscibilissimi – uomini e donne, profili di città,
motociclette.
E' ciò che le genera ad essere mostruoso.
E' ciò che le genera ad essere mostruoso.
Munnezza.
Grovigli di rifiuti,
mostri prodotti dall’opulenta società del benessere.
Il ribaltamento di senso rispetto all’archetipo che l’ombra
ha nell’immaginario collettivo sembra totale, ma non lo è.
Le ombre fanno sempre paura.