mercoledì 27 novembre 2013

Il pepè

Il mio verdummaro Fabio è diverso. 
Fabio ha più tatuaggi che pelle, lo spinello sempre azzeccato in bocca, e uno sguardo da fetentone.
Da lui  niente bio, e  niente cachissi venduti come cammei nelle vaschettine  di plastica blu con centrino di pizzo di plastica di sotto. 
Sulle cassette della frutta e della verdura  ci sono i rotoli dei sacchetti per il self service, se si vuole far da sé.
Dei ragazzi lo  aiutano nel negozio.
Durano poco, i ragazzi di Fabio.
Un masto  troppo esigente, o forse soltanto troppo sfuttitore. 
Fatta la spesa,  aspetto come al solito che infili gli odori nella busta. 
(Petrusino, laccio e vasenicola  – pure d’inverno – sono omaggio)

Dimetriossss, pigli’ ‘o pepè là adderetr.
Demetrio, il nuovo arrivato, si inabissa nel retrobottega, mentre l’altro guaglione porta la cassetta con gli odori  (prezzemolo, sedano e basilico) dal camion alla cassa. 
Demetrio non esce.
Demitriiiooo, l’è truat ‘o pepè?
Demetrio riemerge con in mano un fascetto di bieta. 
Dimetriooosss,  ma che è pepè chest?? Va, vire, è arancione ‘o pepè. Sta sotto lloco. 
Demetrio ritorna nel retrobottega a continuare la sua ricerca. 
Mai scontentare il masto. 
Mica solo Demetrio, pure io mi chiedo che cavolo sia il pepè. 
Improvvisamente  un’illiminazione (SanMassimoTroisidaSanGiorgioaCremano). 
Il pepè è il minollo vegetale. 
E poiché Fabio capisce  che tempo 5 secondi avrei fatto fuori il gioco (povero Demetrio), si  affretta ad aggiungere:
“Nun dà retta, Dimitréss, sta ccà ‘o pepè, jesci  fora”.

Da Fabio, in omaggio oltre agli odori, ho anche una piccola dose di buonumore. 
Impagabile, quella.

mercoledì 13 novembre 2013

Chesil Beach

Era  da tempo che non leggevo  un libro capace di indurmi a  produrre  un migliaio e passa di pensieri.
(non so mica se è una cosa buona, però) 
E’ successo con Chesil Beach di McEwan. 
Letto anche  un poco  prevenuta, che Sabato dello stesso autore mi parve una palla cosmica. 
(e nonostante abbia adorato il libricino per ragazzi L’inventore dei sogni
Mica mi ricordo com’è che ho deciso di leggerlo.
(ah, usato come tagliamattunazzo, ecco, mò sì)
Fatto sta, che mentre lo leggevo, pensavo a quanto distante fosse quella storia  dai nostri tempi, da me.
E invece alla fine mi ha coinvolto molto molto più di quanto potessi mai immaginare all’inizio. 

Chesil Beach
Erano ancora i tempi, destinati a concludersi alla fine di quel famoso decennio, in cui essere giovani costituiva un ingombro sociale, un marchio di irrilevanza, una condizione di leggero imbarazzo per la quale il matrimonio rappresentava l’inizio di una terapia.
Erano i primi anni ’60. 
Una preistoria, data la difficoltà a immedesimarsi non tanto nei personaggi, quanto nella situazione.
Florence e Edward, poco più che ventenni, lei musicista, lui laureato in storia, di famiglia altoborghese e poco incline alle affettuosità lei, di famiglia scumbinata e calorosamente fingitrice lui, si incontrano, si innamorano, decidono di sposarsi. 
Un anno di castissime passeggiate,  sguardi, sogni di un futuro radioso, Edward arruolato nell’azienda del suocero, che non manchi il buon lavoro segno di distinzione sociale. 
Ma qualcosa non va, si inceppa, si blocca.
La prima notte di nozze si rivela una tragedia, tale che i due, a Chesil Beach, luogo ideale per la luna di miele,  si separano per non incontrarsi mai più. 
Matrimonio non consumato. 
(Ma che brutta espressione, consumare il matrimonio, a rigor di logica il matrimonio si è consumato e pure velocemente, si è proprio svaporato)

La voce del narratore adotta, nel racconto della notte a Chesil Beach, ora il punto di vista di Florence ora il punto di vista di Edward, attraverso flash back fornisce descrizioni delle loro vite familiari e dei loro incontri e rapporti e pensieri e paure prematrimoniali, e solo dalla prospettiva di Edward, segue ciò che accade dopo.  
La voce di Florence è prevalentemente la voce del presente: i sensi di colpa e il senso di schifo nella prima notte di nozze.
Di Florence non sapremo più nulla, tranne che diventerà una musicista famosa, mentre Edward a sessant’anni si chiederà ancora cosa sarebbe successo se l’avesse rincorsa, se avesse avuto pazienza, se e se. 

E se Florence avesse detto subito del suo problema, già nella serata del cinema,  senza illudersi di poterlo gestire in seguito?
[E se Maria o Michele avessero immediatamente detto o tu o mammete, non vi voglio prendere in paranza?
E se Lucia avesse detto o ti metti con la capa a fa bene e la finisci di toccare il culo a tutte le femmine e poi ne parliamo, senza illudersi che mettere l’anello al dito equivalga a mettere l’anello al pisello?]
Cosa sarebbe successo a Florence e Edward, se Florence avesse parlato prima, se Edward avesse chiesto prima. 
Si sarebbero sposati ugualmente, per poi trascinare per anni  pensieri e parole rimbrottose, le accuse – iotihosposatanonostantetufossifrigida chitelohachiesto?Lohaifattoperisoldieperlafabbricadipapà, -   oppure sarebbe finita prima di cominciare?

Dicevo che è difficile immedesimarsi nella situazione, ma  basta spostare l’asse di osservazione dal problema specifico, la frigidità di Florence e l’urgenza amorosa di Edward “esplose” nella prima notte di nozze, con il loro carico di sensi di colpa, di inadeguatezza, di vergogna e di incapacità di sentirsi "adulti, per ritrovare nel libro una dimensione “universale”. 

Così l'ho letto non nella sua valenza storica, ovvero relativamente alla difficoltà di vivere in modo "naturale" certe esperienze fuori dai condizionamenti sociali e dai tabù (anche quelli autogenerati), nè come un libro sull'incomunicabilità, sia nella coppia che nel microtessuto familiare, quanto come un libro sulla  errata percezione che abbiamo di noi stessi, della nostra capacità di “tenuta” e della capacità di “tenuta” dell’altro.
(Quanto posso durare, senza mentire a me stesso, senza esplodere)
Tra i due personaggi della storia, la mia simpatia e comprensione va ad Edward.
Ma forse solo perché il vero problema di Florence non è tanto la frigidità, quanto un atteggiamento mentale che spesso è anche mio, e che in parte detesto. 
E’  quello di una vita tenuta sempre sotto stretto controllo, governata con il rigore dell’archetto sullo strumento.  
Sapeva benissimo che la gente litiga, anche in modo burrascoso magari, e poi si riconcilia. Ma non aveva idea di come iniziare: molto semplicemente non conosceva il trucco, il dissidio che rasserena, e non era mai riuscita a convincersi del tutto che le parole ostili potessero essere cancellate e dimenticate.”

Un libro molto bello, questo di McEwan. 
Bello come tutti i libri che trascendono la storia che raccontano. 

giovedì 7 novembre 2013

Epigoni

Pensavo  che Cristina Peri Rossi  fosse una giovane autrice italiana, invece è una scrittrice e giornalista  uruguayana.
Le informazioni in rete sono quasi tutte in lingua spagnola, sicchè chi vuole saperne di più è edotto sul fatto che o  si conosce lo spagnolo o  ci si accontenta di una traduzione googliana.

Il museo degli sforzi inutili è l’unico testo della Peri Rossi  tradotto in italiano, in un tempo anche piuttosto remoto,  nel 1990.
E’ una raccolta di racconti, tutti piuttosto brevi  e assai eterogenei,  per timbro più che per temi.
I temi sono quelli cari alla  ormai tradizionale vena dell’assurdo tipica di una certa letteratura sudamericana:  ossessioni,  discrepanze, rotture, incapacità di adeguarsi  alla realtà. 
In poche righe la Peri Rossi mette in  campo  situazioni paradossali o decisamente surreali, come quella in cui un uomo, trovata  tra l’immondizia una porta di legno, se la trascina in casa, la cura, la posiziona in modo che possa guardare il paesaggio dalla finestra, la usa come ascoltatore della storia della sua vita: Parlare al muro è il titolo del racconto.  
In realtà, più che un'esponente generica del filone del realismo magico,  la Peri Rossi è nello specifico un epigono di Cortàzar. 
La pulce è saltata immediatamente al naso sul titolo di uno dei racconti, Istruzioni per scendere dal letto, omaggio - e non plagio, che non vi è alcuna possibilità di paragone - alle istruzioni contenute nelle Storie di Cronopios e  di famas
(Ho scoperto poi  che  l’autrice ha anche dedicato un saggio al suo “maestro” e amico 

Cristina Peri Rossi sta a Cortàzar come Francesco Boneri  sta al Caravaggio.
Non tutti i racconti hanno  la stessa capacità di “sfondamento”,  molti sanno di esercizietto.
Quelli davvero interessanti si distinguono per la prevalenza dello  sguardo ironico  che pur sembrando  bonario, rivela la spietatezza della realtà che è sottesa:  l’Urlo di Tarzan,  Punto Fermo,  La pecora ribelle e  Bandiere.
E forse si erge, sopra tutti,  Storia d’amore
Molto poco ironico, anzi, totalmente tragico. 
(e ça va sans dire, declinabile anche al femminile)
Colpita da una irrefrenabile mania da amanuense informatizzata,  mi sono presa la briga di ricopiarlo, per  il passante che abbia  voglia  di curiosare. 


Storia d'amore - Cristina Peri Rossi (da "Il museo degli Sforzi Inutili)

Disse che mi amava e mi donò la sua vita. 
All’inizio, io mi sentii lusingato – era la prima volta che mi succedeva -, ma poi cominciai ad avvertire un dolore alla schiena. Non esistono vite leggere. Sono tutte difficili da portare. Poiché sono docile ed obbediente, calzai bene il pesante fardello sulle spalle e mi diressi, senza esitare, verso la montagna.  Talvolta la sua vita mi sfregava le scapole, in cerca di equilibrio, e io sentivo un bruciore sulla pelle, che si arrossava e si screpolava. Quando un fianco mi doleva troppo, inarcavo il dorso e cercavo di spostare il peso sull’altro. 
Non avevo ancora percorso la prima parte del cammino quando notai che una delle mie costole  cambiava di posto, venendo a conficcarsi nel mio stomaco. Allora mi allarmai, cercai di disfarmi del carico, ma lei dichiarò solennemente che mi amava, e mi si accomodò meglio sulle spalle. 
Con la costola piantata nello stomaco, era difficile mangiare e muoversi, ma per fortuna scoprii un nuovo di respirare, in due movimenti, il primo lento e non molto profondo, il secondo più deciso, che mi permetteva di continuare a camminare. Osservai come, lungo il tragitto, molta gente si fermasse per congratularsi con me: si era sparsa la notizia del suo amore e io ero diventato relativamente famoso. I miei piedi sanguinavano e rinunciai alle scarpe. Desiderai, come le enormi tartarughe marine, di possedere una corazza che mi proteggesse la schiena.
Sotto il peso della sua vita, io avanzavo chino. Ormai non vedevo più il cielo , né le alte cime degli alberi, né gli uccelli che solcano l’aria, né le fugaci farfalle dei giorni di tempesta. Certo, a volte provavo una forte nostalgia delle nuvole e dell’arcobaleno, ma mi abituai a camminare curvo, a guardare solo le cose che si muovevano rasoterra. 
All’inizio quando mi fermavo a bere presso un ruscello cristallino o a riposare un po’, lei accettava che io depositassi per breve tempo la sua vita a terra (mangiavo e bevevo sorvegliandola attentamente  perché non si perdesse o non se la portasse via uno sconosciuto). Così , mi prendevo un po’ di riposo. Ma un giorno, quando camminavamo già da un bel pezzo, mi annunciò la sua decisione di non separarsi mai più da me. Non potei alzare lo sguardo e guardarla, per via del peso, ma capii ugualmente l’ostinazione del suo proposito. La risoluzione, a quanto mi disse, nasceva dal profondo amore per me. Avevo la schiena incurvata, le gambe che mi tremavano, i piedi scorticati e le costole, ribelli, che si spostavano continuamente, ma avevo l’esclusiva del suo amore. “Non potrà continuare a starmi incollata, se io non voglio”, pensai, mentre con un movimento delle spalle mi assestavo meglio il carico.  La montagna era ormai prossima e la temibile ascesa sarebbe cominciata da un momento all’altro. “Che lo voglia o meno – mi dicevo -  potrò sempre sbarazzarmi un istante di lei per bere o dormire, anche se piange, grida o fa finta di essere malata: basterà scrollare le spalle perché cada”. Tuttavia mi sbagliavo: quando cercai di scrollarmela di dosso per poggiarla un momento a terra, mi accorsi che non potevo farlo. I suoi organi vitali, durante quel tratto di strada, avevano cominciato a secernere un liquido giallognolo, una sostanza cornea che raggrumandosi sulla mia schiena, l’aveva definitivamente unita  a me. Con l’ostinazione cieca del naufrago cercai di rompere la dura crosta che ci univa. “E’ inutile, -disse lei, proprio sui miei reni. – Il mio amore è eterno, indissolubile, indistruttibile. Dai miei seni emana questo zampillo che raggiungendoti  si solidifica e dal mio utero fluisce questo metalloo che aderisce alle tue costole”. “Ormai non ci separeremo più”, aggiunse, trionfante. 
Invano mi scrollai, cercando di liberarmi dal peso: ottenni solo di stancarmi di più. Infatti,  come quelle torpide lumache che avanzano lentamente con il loro guscio addosso, a ogni mio movimento trasportavo, senza volere, anche lei. Pensai di avvicinarmi alla montagna e sbattere brutalmente il mio carico contro la pietra dura, insonne; ma subito capii che mi sarei sfracellato anche io, come una fiera impazzita. 
Sicchè cominciai l’ascesa. Le secrezioni dei suoi organi erano sempre più frequenti; quei liquidi appiccicosi mi scorrevano sulle mani, intorpidendomi le dita; formavano spesse pellicole adesive che univano diverse parti del corpo fra di loro, così la difficoltà di camminare aumentava. Sentivo fluire sulle spalle le sue secrezioni, che rafforzavano sempre più la crosta che ci univa. 
La notte ero esausto e dormivo in modo discontinuo, bagnato dai liquidi che a intervalli regolari sgorgavano dalle sue ascelle, dai suoi pori, dalle sue gambe.
Un mattino mi svegliai con la bocca completamente otturata da un tessuto colloso, giallognolo, di solida consistenza, che non mi consentiva di parlare; compresi che, agitandosi nel sonno, aveva sprigionato quelle fibre cartilaginee che si erano indurite sulle mie labbra. Lottai per spezzare il guscio, ma fu impossibile: ora procedevo muto sulla montagna. 
L’ascesa è difficile. Sono sempre più curvo. Lungo il cammino non vedo nessuno. Non si tratta soltanto della solitudine dei luoghi o dei rischi della montagna: quand’anche passasse qualcuno non lo vedrei, piegato come sono per il peso. D’altra parte, la mia fama si è spenta: credo che nessuno mi riconoscerebbe, con le ossa di fuori, macilento e pieno di croste teguminose. 
La fine del viaggio mi preoccupa: la cima della montagna è molto lontana e non riuscirò mai a raggiungerla. Inoltre sono, o almeno sembro, molto vecchio. So che morirò e ho cercato di farglielo capire: sono sempre più magro, i miei piedi sono ormai scarnificati, le ossa mi spuntano dalle piaghe che ho nel corpo. Siccome non posso parlare (né mangiare) per via della crosta, gliel’ho detto a gesti. Lei mi ha subito consolato. “Ti amo, - mi ha detto, - ti ho offerto la mia vita. Come potresti non darmi la tua?”