sabato 29 ottobre 2016

Referendum, Riforma e soprattutto No.

A me piace il referendum. 
Mi sembra davvero uno strumento di democrazia popolare, molto più di altre votazioni, soprattutto quelle con il barra o scrivi il nome del candidato, dove le cordate, i voti parenterali, amicali, di piacere, di simpatia, di obbligo, a pagamento etc etc vincolano alcuni anzi tanti anzi troppi. 
Il mancato quorum nelle precedenti consultazioni dice tutto  riguardo passione e partecipazione.
Ah, il Cuorum
Se  ci fosse stata la stessa risonanza, rimbombanza, schiamazzanza  mediatica nelle passate tornate referendarie, forse…

Stavolta il problema del quorum non si pone proprio: non importa se votano tre persone, decide la maggioranza dei tre per tutti. 
Quanto mi secca, quanto mi secca. 
Se fosse stato necessario il quorum   non sarei andata a votare. 
E invece ci devo andare per forza e marò quanto mi secca, mi indispone proprio dovermi allineare su posizioni che sono anche pirlusconiane, destrorse, apparentemente reazionarie. 
Ma come, non vuoi ridurre i costi della politica? Non vuoi maggiore snellezza, non vuoi evitare gli empasse, tu non vuoi andare avanti?
Avanti popolo. Avanti addò?

Se la buona costituzione dovesse rivelarsi anche  solo simile, negli esiti, alla   buona scuola, allora voglio la penna e il calamaio, le pergamene, i papiri, la clava e la caverna. 
Di quella, della buona scuola, solo chi c'è dentro può capire il baratro che è nascosto da tanti proclami, slogan e blablabla.
Quella mi è piovuta tra capo e collo. 
Ora  dovrei dare l’assenso.  
Sticazzi che lo do. 
Non mi fido. 
Ecco cos’è, non mi fido per niente, e poiché non mi fido neanche degli sbandieratori del no, prima di decidere  ho cercato di capire da sola,  di districare la domanda codicilla, di andare direttamente all’origine e non al riassuntino.
Ho provato a leggere il testo pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 88 del 15 aprile 2016.


Sticazzi doppi. 
Una caterva di articoli costituzionali vengono toccati, e in tre ore sono riuscita a leggere e compararne solo una decina. 
Marò. 
E come si può immaginare che un italiano medio possa avere le competenze per comprendere fino in fondo tali cambiamenti? 
Perché mai dovrei dare l’assenso su qualcosa che non mi è chiaro,  su qualcosa di cui non posso prevedere la portata? 
(se quelli che hanno “disegnato” la riforma costituzionale sono della stessa paranza dei promotori della  buona scuola, credo che manco loro ne abbiano pienamente idea)

Poi ci sono molte cose che non mi piacciono. 
Ad esempio riguardo le leggi di iniziativa popolare.  
Adesso è necessaria la firma di almeno 50.000 elettori per  una proposta di progetto di legge.  
Con la riforma costituzionale ce ne vorranno 150.000. 
Le proposte di legge di iniziativa popolare  finora sono state  bellamente ignorate, rimpallate a destra e a manca fino a scadenza termini. 
Ammesso sia  vero che semplificando l’iter, anche le leggi di iniziativa popolare potrebbero avere  un migliore destino, perché mai alzare così tanto il tiro, imponendo il triplo delle firme  per avviare le proposte? 
Come se ogni giorno si facesse raccolta firme, firme a piè sospinto. 
Metti 1 davanti e  passa la paura. 

No, non posso dare il consenso.
Non mi fido. 
NO. 

sabato 15 ottobre 2016

Atlante delle isole remote.

Judith Schalansky insegna  tipografia al Potsdam Technical Institute dal 2008.
Così dicono le note biografiche nel sito del Premio Salerno Libro  d’Europa di cui è stata vincitrice. 
Tipografia. 
La prima cosa che mi viene in mente è un piccolo opificio rumoroso, intriso di acre odore di inchiostro e solventi.
Non penso al prodotto della tipografia, magari un'elegante e candida brochure. 
Chissà come e cosa insegna nello specifico, Judith Schalansky. 
Forse la tecnica legata alla stampa degli incunaboli, i caratteri gotici, il segno sottile e arcuato delle lettere. 
L'estetica della tipografia. 
Non potrebbe essere altrimenti, pensando alla cura tipografica del suo libro, 
Atlante delle isole remote

Judith Schalansky, Atlante delle isole remote

Copertina pan di zucchero, dorso in tessuto nero, sui risguardi il mondo, disegnato con un elegante e complesso segno di tratteggio a matita su sfondo arancione. 
Oltre la prefazione, le 50 isole dell'atlante si dispongono solo sulle pagine dispari. 
Isole talora piccolissime, talora inaspettatamente grandi - il mio metro di paragone è stato Procida - per lo più situate nelle enormi distese oceaniche. 

L’isola è nell'immaginario collettivo qualcosa più di una piccola terra emersa circondata dal mare.
E’ dove sognare di andarsene quando non ce la si fa più, è l’atollino con la palma dove vive il naufrago delle barzellette della settimana enigmistica, è un luogo separato e lontano.
Remoto, appunto.
“…le isole non sono che piccoli continenti e che i continenti, a loro volta, non sono altro che isole molto, molto grandi.
E’ impressionante come le 50 isole dell’atlante di Judish Schalansky siano o siano state toccate, per quanto minuscole o respingenti o disabitate, da vicende umane che varcano i confini del loro ombelico: esploratori, naufraghi, sognatori, sfruttatori, distruttori calpestarono, hanno calpestato e calpestano il loro suolo.

Nessuna isola, per quanto remota e lontanissima, è veramente “isolata”.
Nell’era della globalizzazione, dell’internet, del google view (il mio atlante preferito, quello che percorro con le dita sulla tastiera quasi ogni giorno per vedere luoghi dove non sono mai stata e dove non andrò mai), il lontano è un’idea assai astratta per gli abitanti della terra, la casa con googolplex di stanze.
Accanto alle isole, sulle pagine pari, le parti testuali  forniscono  informazioni relative alle dimensioni, alle distanze da altri luoghi, ai “tempi” della loro scoperta, e di ogni isola l’autrice dice qualcosa.
Lo fa con una modalità che non è saggistica, non è narrativa, non è storiografica, non è scientifica.
Non c'è definizione appropriata, si deve inventarla.

Geopoetica, ecco.