giovedì 21 marzo 2013

Ho visto Nicola.


Mi è capitato di imbattermi - potenza di feisbuc che prima ti faceva arrivare in bacheca le foto di pinchi pallini commentate da un tuo contatto  amico di amici di amici -  in alcune immagini, fotografie di dipinti, di oli su tela.
Mi è  venuta curiosità, ho sbirciato, sono entrata nella  pagina del proprietario.
(meditare, riflettere, solo quello che non si mette sul web non si trova, per il resto…)

Lui, il proprietario,  è Nicola Piscopo. E’ un artista.
Giovane (giovanissimo).
Ha una mano che mi piace assai.
Una testa che mi piace ancora di più. Pariante.
(non lo conosco, non l’ho mai visto, potrei cambiare immantinente opinione)
E’ l’opposto dell’artista così come è consegnato all’immaginario collettivo.
Al mio immaginario, pardon.
Presuntuoso, pretenzioso, snob, distante, distratto, egocentrico, iosoepercepiscotuttievoicomunimortalinoncapiteunamazzadellaprofonditàdelmiosentireartistico.
(ho ancora memoria di certe opere d’arte viste al PAN)
E' il contrario, dico.

pomodori secchi

Delle cose che fa Nicola mi piace l’ironia, il giocare con i luoghi comuni, il rendere materico (la sua pittura è espressionistica,  carnosa, anche quando dipinge i filamenti) certe espressioni figurate;  trovo che sia esplosiva la prolificità delle associazioni mentali che trae da parole comuni, e la sua capacità di condensarle in immagini.
Penso ai dipinti Altrimenti… ma non solo.
(un poco egocentrico, vabbuò, Nicola lo è,  in Altrimenti…i profili sono sempre i suoi, ma è meglio pariarsi addosso che pariare addosso ad altri, non  mi sarebbe piaciuto impersonare il fallimento, ad esempio)


Giocare con i significati e i significanti senza che questi assumano la dimensione dell’incomprensibile, che bella cosa.


Magari i critici puzza al naso chiossape quante ne avranno da ridire, il carattere fumettistico, e  blablabla.
Chisenefotte.
Il mio è lo sguardo di un passante, a cui pare che Nicola di  creatività ne abbia da vendere.
E a cui pare che abbia anche una bella mano: fluida fluida, esuberante, incontinente, irriverente.
E anche una forte carica comunicativa.
Questione di impressioni, ma a me sembra proprio che sia un buon artista.
Un artista buono.

La morte bianca - Nicola Piscopo






martedì 19 marzo 2013

La signora nel furgone


“La signora nel furgone” è un racconto che si legge in poco tempo,  e viene da chiedersi se sia una storia vera o una pura invenzione letteraria. 
Il narratore/autore, mister Bennett, racconta  della fantomatica Miss Shepherd:  un donnone di un metro  e ottanta, piedi giganti, cappellino immancabile  e sottana  cucita con gli stracci per la polvere arancioni.
Miss Shepherd  ha scelto come sua casa un furgone giallo, il colore del papa.  
Un personaggio memorabile e non così improbabile come può sembrare ad un primo impatto.
In fondo ce ne sono tanti di stravaganti e non allineati,  che passano sotto i nostri occhi ogni giorno. 

[Ho pensato al terzetto. 
E’ da un po’ che  non lo vedo più.
Un uomo e due donne:  capelli grigi e unti,  abiti sciupati  e demodè, magro e allampanato lui, più piantate le altre; camminavano vicini vicini, come a volersi sostenere con la forza del pensiero, poiché  le braccia erano tenute rigide lungo i fianchi. 
Si dirigevano verso la fermata dell’autobus e prendevano quello per la zona ospedaliera. 
Mai una parola tra di loro, un gesto. 
Un trio di silenti robottini.
Chissà che fine hanno fatto. Spariti insieme, così come erano comparsi, da un giorno all’altro, insieme]

E’ la  storia ad essere  paradossale: è possibile ospitare per oltre 15 anni nel proprio giardino un furgone abitato da una  raccattastracci e raccattabriciole -  accettare una porcilaia nel proprio orticello -, senza sapere niente, senza voler sapere niente dell’ ingombrante vicino?
E’ questo che fa il narratore,  ripercorrendo episodi della convivenza condominiale non proprio involontaria. 
Giustifica la tolleranza del furgone e della signora Shepherd , comparsa nelle strade di   Gloucester  Crescent  dal ’69, come frutto del “ Contrasto tra il tenore di vita del nuovi arrivati scoprivano di potersi permettere  e le loro idee progressiste : in poche parole avevano dei sensi di colpa sconosciuti agli yuppie di adesso  (che “non vedono il problema”)”.

Quanto vera com-passione, mi chiedo.  Ci sono voluti 15 anni, e la morte, a spingere il signor Bennett  a scoprire qualcosa di più sulla donna del furgone. 
A cercare di conoscerla davvero. 

Sostenere che l’uomo sia un animale sociale mi pare a volte  una grande menzogna. 

venerdì 15 marzo 2013

Blatte e fulmini


Ci sono incontri fulminanti, talvolta.
Boris Vian, ad esempio, e  La schiuma dei giorni.
La meraviglia del surreale che dice più del reale.
(un libro pieno di musica, disse de L'Écume des jours  una mia amica, e nonostante la cupezza finale, c’è una voglia irresistibile di vitalità, un vitalismo sfrenato  e dolce, melanconico talvolta)

Il Mar delle Blatte e altre storie è una raccolta di racconti visionari e surreali scritti da Landolfi.
(Il realismo magico, eco scolastico rimbombante)
Mi sarebbero dovuti piacere assai.
Invece c’è qualcosa di cattivo, in questi racconti di Landolfi.
(non tutti i fulmini fulminano)
Una sorta di inettitudine e di banalità che esige nella vendetta, anzi, nel desiderio di vendetta , il proprio riscatto.
Questa è la sensazione che ha dominato la lettura, unita alla convinzione che  in queste storie  imperi  una affatto sottile misoginia, declinata in tutte le forme del  simbolico e del visionario.
(per non parlare del  fastidioso prurito, e l’orrore che uno scaraffone di stramacchia si potesse essere infilato sotto la maglietta, friccicando sulla pelle con le zampe pelose)
Non mi riferisco solamente al primo racconto, Il Mar delle Blatte, di gran lunga il più notevole (per il secondo,  quello sulle nozioni di astronomia sideronebulare,  ho da fare le ripetizioni).
Penso anche al sogno dell’impiegato, dove  la moglie del capoufficio,  “di un’imponente venustà  eppur vivace, senza dire della sua notevole cultura”,  che era tenuta per donna inaccessibile, viene ritrovata come entraneuse   in un bordello, a chiamare pupo e cocco o bel bruno gli impiegati ivi giunti a trascorrere allegramente la serata.
O al racconto del lupo mannaro, dove  uno dei licantropi raccoglie la luna, un grosso oggetto rotondo simile ad una vescica di strutto, appiccicosa e molliccia ( e non lo so perché,  ma ho pensato alla luna come al femminino, ho associato quella  luna vescicolare all’utero, boh) e cerca di sopprimerlo infilandolo nel camino.
[stai fresco a voler uccidere la luna]
Nel  primo racconto,  Roberto, figlio sfaccendato dell’avvocato Coracaglina , si trasforma nell’Alto Variago, e per carpire l’amore di Lucrezia non esita ad attraversare il mare delle blatte, capitanando in guisa di pirata un veliero, per  giungere all’isola su un mare azzurro sotto un cielo azzurro,  passando prima per il rapimento, la sfida di seduzione  da svolgersi sotto gli occhi dell’equipaggio e del signor padre  e infine, persa la sfida (eheh),  lo schiacciamento sotto i piedi del rivale in amore. 
Il  desiderio di rivalsa  si concretizza in una visione cupissima, dove il debole  Roberto riesce a imporsi chiamando a raccolta le ombre degli inferi, punendo la donna che gli si è negata con l’umiliazione - attaccare i serpenti ai capezzoli che spruzzano fiotti di latte, marò!  -  rendendo l’antagonista in amore  un vermiciattolo azzurro.
Insomma,  c’è del morboso, e un morboso fine a se stesso, involuto, e assolutamente  privo di ironia.
Molto meglio le due zittelle.
Anzi, molto meglio la scimia.