mercoledì 31 dicembre 2014

Il caporale Lituma sulle Ande

Questo è l'ultimo post dell'anno. 
Questo incipit non ci appizza niente con il caporale Lituma, però. 
(una liaison nelle Sopravvivenze)

Avrei potuto, avrei voluto, avrei dovuto non scrivere più niente. 
Resettare, come quando ti accorgi che un'esperienza ha dato quello che doveva dare, fatto quel che doveva fare, e sarebbe meglio troncarla, finirla, senza che - la fortuna del poter cliccare sul tasto cancella, che nella vita reale non c'è - si trascini così, senza  senso, senza entusiasmo. 
E invece, per una beatamazza che non ha niente di razionale, spero che la piantina si possa ripigliare, nonostante la gelata,  la neve, e le foglie ammosciate e livide. 

E mò il caporale Lituma, che si chiede:

Come era possibile che quei manovali, molti dei quali abituati a vivere come creoli, che avevano fatto almeno le elementari, che avevano conosciuto le città, che ascoltavano la radio, che andavano al cinema, che si vestivano da cristiani, avessero compiuto cose da selvaggi tutti nudi e cannibali? Se si fosse trattato di indios delle zone più remote delle Ande, che non avevano mai messo piede in una scuola, che continuavano a vivere come i loro trisnonni, sarebbe stato ancora comprensibile.

Il caporale Lituma, che compare in modo "periferico" anche in altri romanzi di Vargas LLosa (pur'iss, eh, mica gli piace abbandonare per sempre i personaggi, ogni tanto risuscitano) è destinato  a Naccos, in  un presidio sperduto sulle Ande peruviane, un presidio che è una baracca in un paesino/cantiere  - baracche e lamiere - costruito nel cuore delle montagne per forarle e spianarle al fine di  costruirvi una strada. 
Tre scomparsi, tre uomini inghiottiti nel nulla di una natura ostile e nel nulla dell’ostilità di altri uomini. 
Rapiti da un gruppo di senderisti? 
La scia di Sendero Luminoso  campeggia nella prima parte del libro, strutturato quasi come un noir: il caporale non si rassegna al silenzio e cerca in tutti i modi di fare luce sulle sparizioni,  nonostante la difficilissima permanenza nella landa sperduta, ingoiata dalla prepotenza del paesaggio andino, permanenza consumata dall'attesa nervosa e febbrile - i senderisti potrebbero giungervi in ogni istante  per consegnarlo alle pietre in quanto esponente dell’autorità governativa - e allietata o distratta, se così si può dire, dal racconto delle  pene d’amore del suo giovane aiutante, appuntamento serale quotidiano. 
Nel romanzo è marcatissima  la cifra stilistica di LLosa   ormai a me nota e sempre amata: storie su storie che si inanellano sulla spina centrale del  racconto, alternanza  di voci  senza soluzione di continuità e senza “segnali”  narrativi  o interpunzioni  (un romanzo a parte potrebbe costituire il racconto della storia d’amore tra il giovane poliziotto  Tomas, finito a scontare l’eccesso di gelosia sul pizzo del mondo, e la piurana Mercedes ; ma bei cammei sono anche i  flashback sulla giovinezza del cantiniere Dioniso e di sua moglie la strega Adriana, o del muto scomparso).

Anche se l’emergere di una verità sconcertante rinchiude Sendero Luminoso nella parentesi della Storia contemporanea,  e lo rende estraneo alle sparizioni di Naccos, io penso che la vera domanda di Vargas LLosa, oltre quella che si pone Lituma sia “Come era possibile che i senderisti (e ancora, sotto altre bandiere, sigle, pretesti e perepepè), molti dei quali colti, molti dei quali per  tanto tempo scamazzati e ultimi,  se la prendessero  non solo con i ricchi possidenti, ma anche con gli stranieri indipendentemente da, con i  “finocchi”,  con le “puttane”,  con i disordinati,  con i casuali, mostrando una crudeltà senza senso?”
La risposta potrebbe essere  nella “Sopravvivenza del fondo di irrazionalità proprio della natura umana  feroce,  che nessun tempo, civile  o rivoluzionario,  riesce a cancellare.” 

Perché è questo il nodo del romanzo.
Ferocia, crudeltà.

E non se ne esce scappando da Naccos.


giovedì 4 dicembre 2014

Il ventre di Napoli (e i capelli e i piedi)

C’è un grande via vai, un vero burdello, nei pressi di Napoli Sotterranea.
(per non dire del mare magnum di sagome  umane che si muove spinto dall’onda inerziale, più che da una sciente volontà, in Via San Gregorio Armeno)
 Il ventre di Napoli  attrae quanto i suoi capelli e i suoi  piedi. 
Gruppi  di turisti, di scolaresche,  famigliole e famiglione entrano ed escono di continuo dall’ingresso del sito, a lato della chiesa di San Paolo Maggiore, in Piazza San Gaetano.
[I Decumani sono un tripudio di santità. 
Mi chiedo come conventi e chiese, concentrati in modo impressionante in pochi metri quadrati,   si spartivano  il gregge,  e come facciano tuttora.
Un tot di  fedeli  affezionati e un tot di fedeli a turnazione -  quelli che non vogliono far  pigliare collera a nisciuno]
La guida, una ragazza con occhi azzurrissimi (i normanni, mica a caso)  e look postsessantottino,  sta un poco sfasteriosa:  forse  raccontare  la medesima storia  4 o 5 volte al giorno per enne giorni  porta alienazione allo stesso modo che manovrare una leva 100 volte al giorno per enne giorni. 

Il primo passaggio  del sito, a cui si accede da una scaletta a lato della biglietteria,  è  uno spazio poco luminoso posto poco sotto il livello della strada.
La prima impressione  è olfattiva: un tanfo di muffa e chiuso che ottenebra.
Le pareti   scenograficamente trattate con  pitture a graffi fosforescenti  e i due mamozi (Egiziani? Minatori? Extraterrestri?) rappresentano  simbolicamente  il primo utilizzo del sottosuolo da parte degli abitanti di 2400 anni fa:  i greci    estraevano   il tufo al fine di costruire le mura della  neapolis. 
La seconda impressione è oibò -  è un sito archeologico o un  parco divertimento tematico?
Fortunatamente questa seconda  sensazione  si dissolve presto,  nella seconda “grotta”,  alla vista del tufo crudo delle pareti, senza la impaccottiglia del blu violaceo con strisce fosforescenti gialle aranciate. 
Poi si scende, fino a 40 metri sottoterra.
In una cavità ampia su un muretto sono poggiati tanti portacandele. 
Nessuna preghiera o voto: in alcuni stretti cunicoli non vi è illuminazione, il passaggio a lume di candela, dentro le fessure delle rocce,  camminando in fila indiana, con le ombre che si disegnano sulle pareti altissime,  conferisce  una suggestione particolare. 
Se riuscissi a tenere lontana  la claustrofobia,  e i pensieri di  un malore, di un terremoto, di un cataclisma – cazz come esco da qua sotto -,   non tanto nei passaggi strettissimi  e bassi  quanto in quelli meno stretti ma tra pareti di roccia altissime, potrei anche sentirmi un’ombra, o una sibilla, o un’avventurosa  esploratrice. 

Dalla cava di tufo  greca ai cunicoli  e vasche dell’acquedotto romano alle cisterne svuotate e pavimentate per accogliere i rifugiati della seconda guerra durante gli allarmi aerei   ai piedi rumorosi dei turisti del 2014 (e ai progetti strampalati,  come immaginare un parco giochi sotterraneo con l’umido che deforma le giovani ossa, pazzi, gli architetti talvolta; o agli esperimenti scientifici, far crescere le piante senza acqua, in virtù dell’umidità e del calore di lampade poste ad emulare la luce solare: utopie): si respira la Storia, centrifugata in una passeggiata.

Nei cunicoli paradossalmente l’aria è più pulita e netta che negli spazi  di superficie del sito: il Museo della guerra è un nome roboante per un  paio di locali nei  quali sono conservati, in vetrine polverose disposte lungo le pareti delle  sale, divise e  armamentari e ammennicoli della seconda guerra mondiale. 
Quel che  resta impresso del Museo è il sapore di chiuso, rapidamente scivolato dal naso alla gola, che costringe ad una  rapida rassegna  e alla fuga  verso l’esterno. 

Il tour proposto da Napoli Sotterranea comprende anche la visita del teatro greco- romano.
L’accesso ad una parte degli scavi si effettua entrando nel  “basso” di un palazzo:  i proprietari  che ivi risiedevano  furono  indennizzati e delocalizzati. 
Nel  vascio,  due letti singoli, una singer,  una cucina economica,  alcune credenze e cummò,  stampe di santi e di madonne, ventiquattro chili di polvere su ogni suppellettile. 
(la polvere rende bene l’idea del vecchio e dell’antico)
La guida prontamente sposta il letto e oooops, una botola. 
Una botolona. 
La solleva disvelando  una scala che portava nella cantina che era un porzione di teatro romano.
Un po’ come usare il sacro graal per tenerci in ammollo i legumi. 
Ma certamente, se non si sa che cazz è  il sacro graal, se non si percepisce la sua “aura”, esso  non è altro che un contenitore. 
Del  teatro greco-romano,  inglobato nelle costruzioni successive,   è stata portata allo scoperto solo una piccola parte:  altra è sicuramente diventata mattone o pietra d’angolo per costruzioni lontane, e di questa visitabile - oltre alle mura costruite con l’ opus reticolatum e  l’opus latericium,  osservabili  in segmenti lungo tutti i Decumani, e gratuitamente fruibili -  c’è poco da vedere,  per  occhi non esperti. 
(anche i miei, ça va sans dire: se teatro fu, non si vede )
Più che al teatro,  penso ai  proprietari del vascio la cui cantina era uno spazio del teatro:  la   botola era nascosta da un tappeto su cui poggiava il letto che aveva un sistema di scivoli e incastri, difficile accedere al  "sottopiano".
Macchinoso, per essere l’ingresso di una cantina “perbene”. 
Borsari neri? 
Un teatro – l’appartamento  rispettabile  – sul teatro. 

Un’altra parte muraria che apparteneva al teatro greco romano è visibile (visitabile mi pare inappropriato) accedendovi  da un altro spazio “espropriato”:  un’ ex bottega di falegnameria che ospita anche una collezione notevole di  gruppi presepiali,  natività e mestieri, posti ad altezza di occhio e di notevole fattura.
(gli scenari dei presepi sono lo specchio delle sovrapposizioni  architettoniche e culturali della città. Il capitello corinzio dentro l’arcata gotica sopra il muro medioevale attraversato dalle erbacce e dalle palle di cannone)
E se da un lato penso, con una puntina di fastidio, che la cifra della città è quella dello sviluppo sommativo, per affollamento, per intasamento, per ottenebrazione, una linea barocca che tracima spesso nel caos, dall’altro penso, con una puntona di orgoglio, a  quanti popoli e genti  hanno la fortuna  di cavalcare duemila anni di natura e cultura, di vedere l’antico che si innesta nel vecchio e nel nuovo e nel modernissimo, sopra e sotto terra, in un modo così “naturale”. 
C’è chi può e chi non può.  
Fortune. 
(ma anche no)



martedì 25 novembre 2014

Camera con vista

La storia, portata sugli schermi cinematografici un bel po’ di anni fa – lo vidi, quello lo vidi - , è nota. 

Il viaggio in Italia  è fatale alla giovinetta inglese Lucy,  accompagnata dalla sua chaperon,  la zitella adulta (destinata per sfioritura del corpo sacro intoccabile a inacidirsi oltre ogni misura e a porsi come colonna d’ercole a difesa della purezza della giovine a lei affidata),  perché tra le mollezze dolci della primavera, l’arte e la Vita – pulsioni elementari, un assassinio e un bacio rubato  –  avverte   un turbamento. 
Uno scossone ai saldi formalismi  vittoriani (post). 

Il  ritorno in Inghilterra è segnato dal fidanzamento con un ottimo partito, un londinese colto, saccente e sprezzante verso la borghesia campagnola del Surrey (a sua volta sprezzante e saccente verso i parvenu, gli impiegati, i lavoratori in generale. Che si innalzino barriere a tutela della propria classe sociale e della propria educazione, prego). 
Ma il caso, il destino, il fato, la mano burlesca dell’autore fanno sì che Lucy incontri di nuovo l’uomo che l’aveva violata nel bosco di viole  - violata tra le viole! -  che “correvano giù a rivoli, turbinando intorno ai tronchi d’albero, raccogliendosi in pozzi dentro le conche, coprendo l’erba di macchie di schiuma azzurra.”, tale da farle ingaggiare una lotta titanica tra il dovere  - sposare il turzo di pennello, rinunciare al richiamo della primavera/vita  - e il piacere – svincolarsi dal lacci, seguire l’istinto e non le convenzioni. 
Lucy “non si sarebbe mai sposata. (…) Doveva diventare una di quelle donne che aveva lodato con tanta eloquenza, che danno peso alla libertà e non agli uomini.
Ma era un’altra menzogna, una menzogna interiore. 
Lucy non avrebbe mai potuto farlo, non era questo ciò che le interessava veramente. 
Naturalmente c’è il lieto fine, come nei romanzi d’ammmore più classici: lei rompe il fidanzamento con il signorino e grazie all’intervento al padre del “violatore”,  sposa  il di lui figlio.  
Vabbuò. 

Fermandomi alla trama,  o alla “introspezione” dei personaggi  – detestabili e irritanti tutti , ma tant’è, come si fa la critica sociale all'Inghilterra  se non si accentua la pedentaria e la pochezza delle sue madri e dei suoi figli? –  avrei dovuto piantare il libro in soffitta, o nel cesto del riciclaggio. 
Il quadro culturale, impregnato di  bacchettonismo e intolleranza  - è sconveniente, è maleducato -  restituisce l’immagine di una galera. 
Una prigione dell’anima. 
[Un’irritazione continua.] 
E come sempre, gongolo per essere nata  in questo tempo.

Però qualcosa  del libro  mi ha intrigato. 
I luoghi, gli spazi. 
Quelli chiusi – stanze,  case,  pensione Bartolini – v/s quelli aperti –il bosco di viole, il laghetto sacro, le colline. 
Quelli estranei – Firenze, Londra – v/s quelli familiari – Il Surrey, Windy Corner.
Il modo in cui vivono l’Italia gli inglesi, anche.
(o la Grecia e  la Turchia )
L’idea dei luoghi, più che i luoghi in sé.

(I pensieri al riguardo sono troppo vaghi per essere verbalizzati. 
Sento che la questione dell’ habitat, non solo inteso come comunità umana,  conta. 
Conta moltissimo. 
Quanto vorrei avere una finestra che affaccia sul mare.)

mercoledì 5 novembre 2014

Formiche, oca blu e surrealismi altri.

Quando penso al surreale in letteratura, subito mi vengono in  mente  le dichiarazioni di intenti di Breton.
Hanno forse qualcosa di giocoso? 
Minchia no. 
E anche la sua letteratura è di una pesanteria che haivoglia, mille volte meglio  la banalità del quotidiano. 
(non a caso il signor Raimondino Queneau lo prendeva per i fondelli)

Vian, l’altra faccia del surrealismo,  di certo non dissemina gocce di serenità. 
Anche il suo romanzo più brioso e felice, La schiuma dei giorni, ha un epilogo tristissimo. 

Boris Vian - Le formiche
Nei racconti della raccolta Le formiche,  la disperazione  e la presenza del Destino cieco (spesso rappresentato da un Maggiore con un occhio di vetro)  che frantumano  speranze e vite sono i veri protagonisti.

Il surrealismo di Vian ha una  cifra particolare, però. 
Per quanto cupissime e nere, le sue “narrazioni”  hanno sempre qualcosa di “destabilizzante” in senso umoristico. 
(Un humor nero. Non è forse umoristico suicidarsi tagliandosi la testa  che duole e metterla a bollire nel pentolone per ripulirla?)

E poi c’è la straordinaria  carnalità delle invenzioni:  attraverso la trasposizione di  referenti che si accostano in modo inconsueto,  Vian riesce   a rendere la “sensazione” tattile ancora più efficace che non  attraverso una rigorosissima e ordinaria “interpretazione”. 
Ad esempio, come rendere meglio il contrasto dal passaggio tra l’aria viziata  di una sala cinematografica e il frizzante  dell’aria notturna se non così?

Peter Gna uscì dal cinema con sua sorella. L’aria fresca  della notte, aromatizzata al limone, era un gran bel sollievo, dopo l’atmosfera della sala, dipinta di blu muffa di gorgonzola – se ne avvertivano gli effetti.

"Le formiche" è uno solo degli 11 racconti della raccolta: una visione altra, scanzonata e pulp, fino alla pagina finale, dello sbarco di Normandia. 
Potrei farne l'elenco e la sintesi, ma perdinci, che noia. 
Però una menzioncina per quello che mi è piaciuto più più di tutti, nonostante la disillusione finale, la voglio fare. 
L’oca blu. 
Una storia di amore e di pali in fronte. 
Vian è una potenza  nel dis-piegare gli effetti dell’innamoramento.

martedì 7 ottobre 2014

C'e del marcio in Danimarca.

Nessuna comunità umana può essere libera dalla meschinità, dall’ambizione, dal sacro principio di inculare il prossimo (vita mea mors tua). 
Fraternitè, libertè egalitè sono parole meravigliosamente utopiche. 
Epperò quanta quanta quanta speranza che si possano realizzare in terra. 
Spesso così si sta, sospesi tra realismo cinico e pia illusione.

Le ONLUS, ad esempio. Organizzazioni Non Lucrative di Utilità Sociale. 
Ah, se non ci fossero, chi si occuperebbe dei disagiati, degli ultimi, dei poveri, dei malati, del recupero dei carcerati, dei minori abbandonati, degli immigrati, di tutti gli scamazzati? 
[in uno Stato di diritto se ne dovrebbe occupare lo Stato]
Il sospetto che molte ONLUS nascondano dietro la facciata dell’utilità sociale un microcosmo di arrubbamienti e nepotismi serpeggia nella maldicenza popolare: 
co cazz che faccio ‘o versamento, chiossape addò vann a firnì overamente ‘e sord” 

Che meschinità, davvero. 
Se si pensa che ci sono tanti gggiovani e meno gggiovani che dedicano energie e impegno, sacrificando all’idea del bene sociale e della legalità (minchia, ne ho fino sopra i capelli di sta parola) notti e giorni, ore e ore… 
Se si pensa che c’è chi 

“non dimentica di sporcarsi le mani, metterci la faccia, mettere testa, di non tirarsi indietro, senza se e senza ma, e di guardare avanti, costruire futuro, speranza, e la memoria che si fa impegno, a piccoli passi ma con molta forza, e la fatica, il cammino, il primato della persona, soprattutto la condivisone, un cammino di condivisione, condivisione da costruire, senza se e senza ma, appunto, e il morso che ti permette di lavorare senza stipendio, la frustra dell’oltre, e sì, anche il passo lento del montanaro, e i muri che parlano e restituiscono memoria, dalla sede dei Piedi e dai beni confiscati, e soprattutto la legalità, e sempre la memoria. “ 

Se si pensa. 
(una litania di parole che suonano come l’oro di bologna)

Luca Rastello, con il suo libro I buoni, vuole sfatare uno degli ultimi tabù che il mondo occidentale conserva riguardo i “buoni”, a cui affidiamo il sostegno morale o economico lavandoci la coscienza: mostra la grettezza, la meschinità, la violenza, la sopraffazione che circola nelle maglie dei sistemi e delle gerarchie delle ONLUS.
La quarta di copertina dice che Rastello ha lavorato per il “Gruppo Abele”, ha diretto delle riviste ad esso legate. 
E’ uno che lo conosce dal di dentro, il mondo delle ONLUS. 
Non è difficile sovrapporre il personaggio di Don Silvano, l’uomo santo con il maglione consumato che ha tra le sue collaboratrici ex puttane e che guida le fila di svariate organizzazioni, cooperative, associazioni, tutte riconducibili al suo “progetto”, a don Ciotti (e per qualche sfumatura di costume anche a don Gallo, le rock star e De Andrè). 
E allora mi chiedo perché Rastello non abbia scritto un’inchiesta vera, piuttosto che un romanzo che parte bene, che permette di soffermarsi e riflettere su cose significative (la visibilità necessaria, ad esempio, sta cazza di rete senza la quale pare che niente possa realizzarsi, dimenticando che il vero bene è invisibile agli occhi, e non ha bisogno di striscioni e di manifesti, e che rabbia pensare a quei poveri cristi dei volontari che ci credono veramente e sono pedine di perfide scalate, scaricabili senza manco l'intervento dei sindacati, addò sta scritto che i volontari tengono diritti?), e che sarebbe potuto essere un vero romanzo di denuncia, ma poi tracima nell’epilogo escatologico? 
(Adrian, il re degli sniffatori di colla del sottosuolo slavo che si trasforma in giustiziere violento guidato dalla parola di Dio, ma insomma)

In questo modo il carattere ”eversivo” della denuncia si diluisce in una sorta di “pettegolezzo”, buono soltanto ad alimentare il cinismo popolare. 
(e anche il mio, naturalmente) 
Avrebbe potuto scrivere un libro coraggioso, coraggiosissimo. 
Ma non l’ha fatto, non è andato fino in fondo. 
Non ha avuto il coraggio di dire nomi e cognomi, dati, fatti, circostanze. 
(chi è Delfino?)
E' un romanzo livoroso, rancoroso, come se l'autore non fosse riuscito a far decantare un'acredine personale, e questa "rabbia" in
 eccesso rende meno credibile il Je accuse.
Penso sia stata un’occasione sprecata. 

(In ogni caso, gli anacoreti fanno la migliore scelta umana possibile)

sabato 20 settembre 2014

Il dito e la luna: cronaca di una lettura. Casa d'altri e altri racconti.

Quasi un anno fa, due giorni ad un anno. 
Facciamo un incontro su un racconto di Silvio D’Arzo. Su Skype, basta che ti metti le cuffie.
(sticazzi quando penso a Skype, che mi funziona da cecata a sorda, io vedo e non sento e chi mi vede non mi sente)
“Manco l'ho mai sentito nominare, Silvio D'Arzo.”
Meglio, così è nuovo e ne vale la pena, informati su D'Arzo
Possibile che mi  perda il chiccone, pur eludendo l’incontro su Skype?
Mi accatto il libro. 
Resta a sedimentare tanto tempo.  
Non leggo mai dopo aver avuto le inzolfate, temo il condizionamento.
Ora ho letto Casa d’altri e altri racconti
Ho pensato boh. 
Allora mi sono informata, qui
E ancora su Anobii, un fiorire di stelle e laudi somme.

Mi chiedo perché a me non ha detto proprio niente,  anzi, meglio ancora  mi ha detto cose che esulano dal racconto stesso e tracimano nelle furbate editoriali, nelle pedanterie filologiche, nelle fortune che talora qualcuno gode perché si crea un’aurea che etc etc.  

Devo fare altre  premesse (ellosò, due palle). 
Non ho mai avuto  grande passione per il racconto breve. 
Il respiro corto  non mi dà il tempo di affezionarmi alla storia, e se le  situazioni narrate sono epifanie dell’ordinario,  in due secondi primi il racconto è già bello che rimosso. 
Devono squillare trombe campanelli e sonaglini, affinchè  possa imprimersi nelle pieghe della mia mente (e tra i peli del cuore).

Appena  ho cominciato a leggere il primo racconto, Casa d’altri, già se n’è sceso il core nelle cazette: la prima immagine delle facce sul saccone attorno al morto, illuminate dal moccolo (il maestro delle candele):  polveroso, un sapore crepuscolare che manco  Gozzano trasferito sui monti.
(mò mi è venuto in mente un altro prete di confino/e, il nipote de Il Messia di Ennio Flaiano, che caratura!) 
Vabbuò, è chiaro,  il problema è mio, l’intimismo non  è la cifra che apprezzo di più nella letteratura, e manco il sussurro, il silenzio, l’indefinito.
(ma anche no) 
Continuo la lettura:  mi  imbatto in una frase  di una certa suggestione, seppur il core persevera  nel rotolare oltre le ginocchia:
«L'ombra proprio non era ancor scesa: campanacci di pecore e capre si sentivano a tratti qua e là un po' prima della prata dei pascoli. Proprio l'ora, capite, che la tristezza di vivere sembra venir su assieme al buio e non sapete a chi darne la colpa: brutt'ora.»
Quanto detesto il dare del voi all’ipotetico ascoltatore (ai lettori, al pubblico). Non mi piace. 
Ma anche questo  è un problema mio.  
Poi mi soffermo su quest'altra frase:  
Sì, diciott’anni, è evidente. Senza dubbio la più giovane cosa del mondo. O anche la più vecchia, chissà”.
La rileggo.  
Senza dubbio o chissà? (non si escludono a vicenda? Confuso alquanto, il prete)
Concludo la lettura del primo racconto. 
Centrale è il  tema del sentirsi estraneo alla propria esistenza:  essere  ospite temporaneo di una vita che spesso si  perpetua in un’immobile routine. 
E’ una vecchia lavandaia,  giunta sulla montagna,  selvatica come la sua capra, a porre al vecchio parroco impinguito dall’accidia nutrita  dai soliti rituali, La domanda.
E dopo, non resta al prete, che in gioventù si era persino guadagnato il soprannome di Doctor Ironicus, che un grande vuoto come se ormai non potesse capitargli “ più niente. Niente fino alla fine dei secoli.
E’ un racconto carico di tristezza,  e di  algida e scarna poesia, che per un motivo che non so spiegare mi ha suggerito l’immagine del movimento oscillatorio  del pendolo. 
Non posso negare un certo fascino “discreto”, sottile, un'inquietudine velata.

Montale  ha definito Casa d’altri “un racconto perfetto”. 
Però vorrei tanto che mi si declinassero le caratteristiche della perfezione nel racconto. 
(e le caratteristiche della perfezione in generale)
Un’amica mi dirà poi che la perfezione è nella perfetta aderenza tra lo spazio, il luogo del racconto e ciò che si dice. 
(Non mi convince, che lo dico affà)

Continuo a leggere gli altri racconti. 
Prefazione a “Nostro lunedì”  lo leggo  una parola sì e due no, mezzo rigo a sinistra e mezzo a destra: i racconti autoreferenziali di scrittori su scrittori e intorno a scrittori manco sono pane per i miei denti (non mi ammalerò mai di Bolanite)

Procedo con Alla giornata
Un déjà vu. 
Lo stesso incipit di Casa d’altri.  
Interi segmenti di testo  che si ripetono identici :
 “Mai assistito  a una lezione di anatomia? Bene: la stessa cosa per noi, in un certo senso. Quasi tutto il solaio era al buio, e tutto quello che si poteva vedere erano le nostre dodici facce *, attaccate l’una all’altra come davanti a un presepio, e quel saccone di foglie, e un pezzo di muro annerito dal fumo e un pezzo di trave annerito anche più.” 
L’aria intorno era viola: e viola i sentieri e le erbe dei pascoli e i calanchi e le creste dei monti: e nel primo buio, lontano, vedemmo scendere al borgo quattro o cinque lanterne.”
E ancora la stessa frase dei diciotto anni sulla quale mi sono impigliata nel primo racconto. 
Ritorna. 
Le ripetizioni non sono limitate a questi due racconti,  che   potrei giustificare immaginando  una gestazione “germinata”. 
Ve ne sono altre. 
Perché? 
Non voglio pensare che  Ezio Comparoni, alias Silvio S'Arzo,  abbia “selezionato” un repertorio di parole, di frasi, di “segmenti” ritenuti evidentemente così “pregnanti” da infilarsi come il petrosino in ogni minestra. 
[non dovrebbero mancare le parole ad uno scrittore. Come si possono “congelare” gli incipit, le conclusioni, i segmenti descrittivi e infilarli dove meglio ci appizzano?]

Voglio credere che gli altri racconti  che sono stati inseriti nel volumetto non erano altro che bozzetti, prove, esercitazioni, e allora mi chiedo perché cavolo non abbiano  pagato qualcuno, quelli dell’Einaudi, per fare  una fetente di introduzione critica, tale che lo sprovveduto lettore  (moi, moi!!) di fronte a queste evidentissime “stranezze”, non resti come un mammalucco? 
(sempre l’amica di cui sopra mi dice che non si deve entrare nel laboratorio dello scrittore, ma io non ci sono entrata, mi hanno spinto e poi hanno chiuso la porta e spento la luce)
E ancora, perché mai  non sono stati selezionati altri racconti, piuttosto che questi abbozzi,  da affiancare al montaliano “racconto perfetto”?
(Non voglio pensare che quest’è, la produzione di Silvio D’Arzo.)

Il quinto e l’ultimo racconto della raccolta hanno la medesima frase a conclusione: 
Tutto questo è piuttosto ridicolo, no?” 
Cade a fagiolo. 
Anche perché  mi sto sentendo come il tipo che guarda il dito piuttosto che la luna.  
Però mi dico che dipende pur sempre dal dito che indica. 
E poi oggi c’è il sole.



*in Casa d'altri le facce sono sei

lunedì 8 settembre 2014

Oltre il confine

Oltre il confine è il secondo romanzo di una trilogia, la trilogia della frontiera.
Alcuni anni fa lessi il primo. 
Fu un giovane amico a suggerirmi Cavalli selvaggi; il protagonista John Grady lascia la sua casa per cercare il suo posto nel mondo. 
E’ un viaggio di formazione, a suo modo una recherche. 
(il mio giovane amico e il suo posto nel mondo, pensai)

La recherche è anche il perno del secondo romanzo della trilogia: anche in questo, il protagonista è un ragazzo, Billy. 
Billy vive coi genitori e il fratello Boyd in un ranch in New Mexico. 
Avvista una lupa che sbrana di armenti. 
Negli Stati Uniti non vi sono più lupi, sono stati uccisi tutti. 
Così dicono. 
Ma gli animali con conoscono i confini tracciati dagli uomini, e la lupa oltrepassa il confine. 

Il padre di Billy gli insegna a piazzare le trappole. 
Billy li vede di notte, i lupi che danzano. 
Il vecchio glielo aveva detto : “il lupo è un essere di ordine superiore, che sa cose che gli uomini non sanno: che non c'è ordine nel mondo salvo quello imposto dalla morte.

Il viaggio di Billy comincia con ricerca della lupa; riesce infine a catturarla: è ferita, è prigioniera, ma Billy non può ucciderla. 
Decide di partire e di riportarla oltre il confine, in Messico. 
Lei e gli altri della sua specie, lupi e fantasmi di lupi che correvano nel candore del mondo delle cime, un mondo perfetto per loro, come se avessero partecipato alla sua 
progettazione.”
Ma il viaggio in Messico, e poi il ritorno a casa, e di nuovo oltre il confine, con il fratello a cercare di recuperare i cavalli rubati alla sua famiglia, e poi ancora negli Stati Uniti, e poi ancora oltre il confine e ancora e ancora, non fa altro che insegnargli quello che la lupa sapeva già: non c’è ordine nel mondo salvo quello imposto dalla morte.

Il libro inizia con una lupa selvatica e aggressiva e fiera e termina con un cane cencioso “ un cane vecchio, col muso grigio e orribilmente storpio nelle zampe posteriori; anche la testa era storta rispetto al resto del corpo e il cane si muoveva in maniera grottesca. Una bestia artritica e sbilenca che si trascinava lateralmente e annusava il pavimento per sentire l'odore dell'uomo”. 
Billy era la lupa, Billy è il cane. 
Però nulla gli impedisce di cacciarlo via con le pietre. 
Salvo poi piangere, per il cane, per se stesso.
Il cieco gli “Disse che era un errore aspettarsi troppa giustizia in questo mondo. Disse che l'idea che il male sia raramente ricompensato era ampiamente esagerata, perché se esso non ritornasse utile gli uomini lo eviterebbero; e allora come sarebbe possibile considerare virtuoso chi lo ripudia?” 
Non è un virtuoso, Billy. 
Non ha più nulla, ma il suo tempo non è finito. 
Perché questo mondo che ci pare una cosa fatta di pietra, vegetazione e sangue non è affatto una cosa ma è semplicemente una storia. E tutto ciò che esso contiene è una storia e ciascuna storia è la somma di tutte le storie minori, eppure queste sono la medesima storia e contengono in esse tutto il resto. Quindi tutto è necessario. Ogni minimo particolare. 
È questa in fondo la lezione. Non si può fare a meno di nulla. Nulla può venire disprezzato. Perché, vedi, non sappiamo dove stanno i fili. I collegamenti. Il modo in cui è fatto il mondo. Non abbiamo modo di sapere quali sono le cose di cui si può fare a meno. Ciò che può venire omesso. Non abbiamo modo di sapere che cosa può stare in piedi e che cosa può cadere. E quei fili che ci sono ignoti fanno naturalmente parte anch'essi della storia e la storia non ha dimora né luogo d'essere se non nel racconto, è lì che vive e dimora e quindi non possiamo mai aver finito di raccontare. 
Non c'è mai fine al raccontare.

E proprio per questo motivo - non c'è mai fine al raccontare - devo leggere il terzo libro della trilogia, e anche - o forse soprattutto - perchè questo romanzo, rispetto al primo, mi ha lasciato uno strano strascico. 
Nonostante la brutalità, il sangue le pietre le ossa il vento del deserto e i fuochi le rovine, ovvero nonostante la “terrestrità” delle situazioni, c’è un qualcosa di “mistico”: i vecchi che trattengono il giovane con i loro discorsi, il vecchio eremita dei gatti nella chiesa, il vecchio cieco, il vecchio “custode” dei segreti della sua città, hanno il marchio del profeta, o dell’oracolo .
E poi ci sono i sogni, e le epifanie: 
A metà torrente si fermò di nuovo, si sfilò l'arco di spalla e lo lasciò cadere nel fiume. L'arco prese ad avvitarsi su se stesso tra i flutti e poi galleggiando andò a finire nella pozza più a valle. Una mezza luna di legno chiaro, che andava alla deriva, perduta nel sole sull'acqua. Ricordo di un arciere annegato, o di un musicista, o di un appiccatore di fuoco.”

Non posso negarne la potenza immaginifica, però è anche vero che rispetto al primo mi è sembrato meno concluso. Una cerniera, non so come dire. 
O un libro di confine: Billy non viaggia e basta. 
Va avanti e indietro, ritorna su sentieri e in luoghi già percorsi: è un moto circolare il suo. 

Dall’epica del viaggio che è l’ossatura di Cavalli selvaggi a qualcosa che non riesco a delineare, oltre alla sacra verità dei lupi. 
So che nella città della pianura Billy e John saranno insieme. 
Voglio sapere che direzione prenderanno le loro vite.

venerdì 15 agosto 2014

Hispanic trip: Albi e Carcassonne (8)

Sulla strada del ritorno verso casa, si fa sosta in Francia.
Un colpo d’occhio su altre due cittadine medioevali.
Carcassonne e Albi  hanno molto in comune,  il catarismo e la sua repressione, ad esempio.
Quello che ora le differenzia in modo radicale è il modo di vivere il centro storico.

Albi, anzi Albì 
[memento:  non c’era verso di far pronunciare alla nonna mia Piazza Cavour come si pronuncia, ovvero Cavoùr. Era sempre piazza Càvour, anzi, la verità proprio, da bambina l’ho sempre sentita dire così, con l’accento sbagliato. 
Ecco, come la nonna mia, col cavolo che riesco a dire Albì. Mi viene sempre piana, come parola]


Il centro storico è nella città. L’ospedale è a pochi passi dalle mura, l’enorme parcheggio è gratuito tranne che per poche piazzole. 
Ci sono due negozi di souvenir sulla strada di fronte alla cattedrale (e basta).
C’è un passeggio  tranquillo e rilassato.
(e anche una buonissima  panetteria che fa una quiche strepitosa)
Cattedrale di Santa Cecilia

Il palazzo della Berbie  e la Cattedrale di Santa Cecilia (la più grande  costruzione in mattoni al mondo, si dice) sono la testimonianza del potere della chiesa che s’impone sugli eretici.
Non dubito che l’effetto intimorente dovesse avere una risonanza molto più forte, nel 1200. 
Tra grattaciali e ascensori e attici, ora le altezze mica impressionano tanto, eppure la sua imponenza è ancora capace di strappare un oooohh.


La cattedrale sembra l’albero di fagioli della fiaba dark di  Jack, e fili dì erba  le casette medioevali.





Il palazzo della Berbie (bìsbia in occitano è vescovo) ospita il museo Henri de Toulouse-Lautrec.
Moltissimi schizzi, disegni, ritratti .
[che mano nervosa, che segno guizzante]
E' emozionante confrontare l’opera finita con gli studi di colore e di forma, tra cui spiccano il dipinto e le tavole preparatorie di
“Al Salon di rue des Moulins”.
[e i manifesti.
Adoro i manifesti di Toulouse Lautrec, la contaminazione con il l’arte giapponese, con il liberty]  


Nulla ad Albì è  ingessato o respingente:  sarà il timbro caldo dei mattoni rosa, la vivacità colorata del giardino inglese del palazzo vescovile, l’allegria sprigionata  da un gruppo di ragazzi che nel chiostro  di  Saint Salvy chiacchiera, fuma, beve birra, sarà per il respiro  di Touluse Lautrec che mi sta assai simpatico, o forse sarà perché la visita  di questa città cade nella  prima giornata di sole di un luglio autunnale:  Albì mi piace proprio, ecco.


Cité di Carcassonne

La citè di Carcassonne è isolata su un’altura. La sua vista da lontano è straordinaria: una vera cittadella fortificata, con bastioni e torri. 
Fiumi di turisti vengono vomitati da bus, corriere, navette.

Dame Carcas


Ci si accalca verso la porta Narbonese, accolti dalla  faccia rubiconda di dame Carcas, (la copia del suo busto, in verità)  principessa leggendaria da cui deriva il nome della città.  
Sembra  che voglia  sfottere, questa madame.
(o fottere, forse)



Dentro le mura: negozi di souvenir, ristoranti, negozi di souvenir, gelaterie, ristoranti, negozi di souvenir, ristoranti, negozi di souvenir, e ancora e ancora. 
Eccheppalle. 
Manco lo spazio per fluire nella piazza hanno le torme di turisti, dato che i tavolini e sedie (azzeccati azzeccati)  occupano quasi tutto lo spazio.

Un mercato  nel senso peggiore del termine.
Una delusione cocente. 
Una delusione da cui mi posso riprendere solo affogandomi nel cioccolato.


O nell’ultimo dolce ricordo del viaggio (lontano da Carcassonne, in Provenza, nella dolce e profumata Provenza) una squisita tarte aux pommes tiepida e croccantina accompagnata da una soffice e fresca mousse di panna con mandorle e  freddo e cremoso gelato alla mela. 
Una delizia.
Peccato si mangi  in un battibaleno. 
Finito, è già finito.
Tutto. 




Le altre tappe: 

martedì 12 agosto 2014

Hispanic trip. Paesi Baschi: Bosco di Oma, Eremo di San Juan Gaztelugatxe (7)

Nel raggio  di una trentina di chilometri intorno a  Mundaka ci sono molte località interessanti da visitare. 
Bilbao – che non ho visto – ne dista   37.
Guernica  solo 13. 
(D’obbligo la tappa nel Museo  della Pace;   in un museo del genere, molto “parlato e de-scritto”, è bene servirsi della visita guidata,  disponibile però solo in Basco, Spagnolo, Inglese e Francese, e dunque ...) 

Il bosco dipinto di Oma, ne dista quasi 17. 
Con l’auto. 
Una volta parcheggiata la macchina,  occorre camminare.
Molto.
A  250 metri dal parcheggio, il cartello con l'indicazione. 
Bosco dipinto 2,9 chilometri. 
Il sentiero, fresco, molto fresco e solitario,  è  prevalentemente in salita.
Pioviggina. 
Il terrore di un temporale che illumini il cielo nero aleggia. 
Di tanto in tanti, mentre arranco sulla salita, odo tra lo stormir del vento tra le foglie e il canto degli aucielli il passo rapido di altri visitatori. 
Pochi secondi. Il sorpasso, e i camminanti scompaiono alla vista.
Mi sento come una seicento sull'autodromo di Monza.
Un cartello nel bosco avvisa che manca solo un chilometro. 
Uff, pant, asp, pant, pant.
Un altro cartello: mancano 250 metri.
E' quasi fatta.
Solo che l'ultimo sforzo è tutto in salita, anzi, in discesa su gradoni sconnessi alti anche 70 centimetri. 
(quanti funghi sulle alzate, che peccato non saper distinguerli)
Alla fine,  eccolo. 
La magia del bosco si riverbera su di me scindendomi in due entità:





[butto  bestemmie che manco uno scaricatore di porto] 
ma cazz, pittò, era proprio necessario addentrarti con le vernici, i pennelli, la scala e tutto l’ambaradan dell’occorrente fino a sopra il pizzo della montagna? Non sarebbe stata la stessa cosa pittare gli alberi a mezzo chilometro dall’inizio del bosco?







[mi commuovo e ammiro]
Che magnifica idea. I segni dipinti sugli alberi, linee rette o curve,  formano figure al mio passaggio. Il bosco è mobile, compaiono baci e legacci, guerrieri, uomini in fuga e occhi che spiano, ed eccolo, l’occhio gigante che sovrasta tutti gli sguardi.





[inarco le sopracciglia e continuo  ad inveire]
Pittò, ma che marina, avresti potuto essere meno arronzone,  tra  tutte queste scippate di colore a botta di stenti tre o quattro fanno effetto, per il resto hai acciso le cortecce, mannaggia alla capa tua. 




[seduta per terra, piccola piccola di fronte all’esercito di occhi che mi guarda]
Che magnifica idea, Agustin Ibarrola
Hai incantato il bosco proprio al centro del suo cuore:  con un filo ideale lo hai  legato  alla grotta di Santimamine, dove ci sono graffiti del paleolitico. 
Gli uomini della preistoria e noi: loro fissavano i bisonti e i cavalli per propiziare la caccia, noi, presi dall’affanno della corsa, non riusciamo a fissare nulla, se non epifanie, attimi percepibili in uno e in solo istante, un passo oltre e il nastro, il bacio  si sciolgono, l’uomo si scompone e della sua interezza non resta più nulla, la molteplicità diventa uno e viceversa.







Mi ricompongo ritornando. 
Io, che sono un tipo da divano e ho molte riserve intorno all'arte contemporanea, non sono entusiasta, ma neanche pentita di aver fatto questa esperienza.
Magari avrei potuto mettere le scarpe chiuse e non i sandali che sono diventati, camminando sulla terra bagnata, tutt'uno con il selciato.





In questa parte dei Paesi Baschi si cammina molto. 
Da Guernica e per un lunghissimo tratto della strada statale vi è una sorta di pista ciclo-pedonabile che conduce da nessuna parte. 
(improvvisamente si ferma, così, nel nulla)
Vi camminano vecchi, grupponi di ragazzi, mamme coi passeggini,  singoli, in coppia, in comitiva.
(ma dove dovranno mai arrivare??)
Chiossape se il cammino di Santiago ci appizza qualche sasiccio.


Dal parcheggio 
Anche per arrivare all’Eremo di san Juan Gaztelugatxe bisogna camminare molto. 
Un convento costruito forse dai Templari sul cocuzzolo di un isolotto roccioso:  un nido di aquila della preghiera.
Nessun afflato mistico mi spinge, ma la terrestre voglia di osservare la costa da un'insolita prospettiva e la capacità umana, tanto umana, di essere  costruttori di bellezza.
(mica facile portare le pietre e il resto sulla cima dell’isola)

Google map non è aggiornato sulle strade basche. E neanche sugli accidenti che capitano alle strade basche.
Segnalava, l'immagine, un bel parcheggio situato ai piedi dell'isolotto, e la scarpinata sarebbe dovuta constare del tratto di  ponte artificiale che collega la terraferma all'isola e della scalinata di 250 e passa gradoni.
Sorpresa!!! 
Strada carrabile chiusa (spaccata in più punti). 
Per arrivare all'eremo bisogna prima discendere il sentiero di  montagna, poi arrivare all'ex parcheggio, e poi affrontare la via crucis degli scaloni. 
Davvero la scalinata è  segnata dalle stazioni della via crucis!
Tra chi sale e chi scende c’è sempre l’ola di saluto, l’ammiccamento e il sorriso transnazionali, come a dire su, su, ci siamo.

Però l'impresa vale la fatica.
Il paesaggio visto dalla cima dell'eremo è una meraviglia. 
Gli scarpinatori più prosaici arrivati alla meta  tirano la corda della campana apposta all'ingresso della chiesetta. 
Gli scampanellii che si sentono sulla montagna prospiciente l'isola non sono dunque i segni delle ore nè dell'invito alla preghiera, ma il segnale di chi ha compiuto la scalata:  l'eremo   ( tutto ricostruito, ho scoperto: prima sir Francis Drake e  poi  un incendio nel 1900 lo distrussero completamente) non è abitato, e l’edificio viene utilizzato come luogo di culto solo in determinate occasioni.

Straniante per chi sale sull'eremo con l'intento di farsi una preghierina (ma anche per altri vari ed eventuali come me) è il sottofondo musicale che proviene dall'interno della chiesa: la signorina addetta alla vendita di gadget (libri , gagliardetti che riproducono l'immagine di san Juan), di acqua e bibite varie, combatte noia e solitudine  con pimpanti  canzonette da discoteca.

Un gabbiano è immobile nel cielo, ali aperte.
Sembra voglia fare gara di resistenza con il vento.
Resta fermo a mezz'aria, tra il mare e il cielo, per un tempo lunghissimo.
Poi si fionda in basso, fa una risalita e riprende il gioco.
Penso che mi servirebbero delle ali per ritornare alla macchina, un puntino bianco nel folto del verde, proprio di fronte a me,  in linea d’aria.

E’ davvero tempo di ritornare, in tutti i sensi. 
Prima di andare a casa però, l’ultimo passaggio in Francia.


Le altre tappe: 



domenica 10 agosto 2014

Hispanic trip. Paesi baschi: San Sebastian, Mundaka. (6)


Cambio, cambio, ancora cambio sipario.
(e come mi piace la varietà!)
Stavolta escludo l’autosuggestione.
Il paesaggio, da Pamplona alla costa, muta  in modo radicale.
Verde, verde, ancora verde:   monti ricoperti di abeti, casarelle in stile altoatesino con tetti spioventi e soffitti bassi, microfinestrelle con imposte di legno e fioriere ai davanzali.
E un cazz di freddo.
A solo 20 chilometri dalla costa sembra di essere in Svizzera.
Pure l’Euskera, la lingua dei cartelli e delle indicazioni stradali, è così diversa dallo spagnolo, così dura, così “consonantica”, piena di K e di Z, da sembrare una lingua ugrofinnica.
(lo so, lo so, è invece una lingua “isolata”)

San Sebastian è una città grande.
La città vecchia non ha nulla del villaggio di pescatori che chiossape come si era delineato nei miei pensieri.
Gli alti palazzi,  eleganti e signorili, mi danno  l'idea di una colonia marina per  benestanti  signori  spagnoli dell’entroterra.
E a proposito di colonie, molto in voga sono quelle infantili.
Campi estivi, nella versione moderna.
Sulla playa de la Concha,  nonostante il cielo grigio e la temperatura  "freschetto andante",  davanti ai miei occhi vi sono  almeno 4 blocchi di mocciosetti  tenuti sotto rigido  controllo da giovani animatori/educatori .
Un gruppo compatto saltellante in acqua ( ma le bronchiti? i raffreddori?)
Un altro sulle scale a scuotere piedini e infilare calzini e scarpette.
Non solo sulla spiaggia, ma anche nei piccoli parchi che punteggiano la città ci sono gruppi di bambini  vocianti urlanti scalmanati e ragazzi con fazzoletti rossi o gialli o verdi o magliette monotinta  che richiamano all'ordine con voce rauca: Josééééééééééé, Mariooooo.
San Sebastian è “cresciuta”  come una città per ricchi, je pense, e rimane tale.

Di delizioso ci sono i pinchos,   delle fette di pane con sopra appoggiata la qualunque: polpo al sugo, pezzi di baccalà fritto, salumi, formaggi, pastrocchi di verdure e uova,  verdure grigliate, salsiccette, calamari e ogni altra cosa commestibile possa venire in mente.
Ne  ho visto uno con pancetta croccante, uovo piccolissimo (di quaglia?) salmone affumicato e formaggio.
(non l’ho assaggiato, troppo guazzabuglio)

La bruschetta elevata alla massima potenzialità.
Pinchos

Ma sfiziosissimo  e  unico è  il principio dell’ape e del fiore che governa la modalità di consumo del pincho: si entra in un locale, si sceglie uno o più pinchos servendosi direttamente - dal bancone al piatto - , si paga il corrispettivo dovuto per i pinchos scelti (da 1,30 euro a 5 euro per pezzo, a seconda della “copertura”),  si accompagna con un bicchiere di birra o vino, e poi si continua  provando i pinchos di un’ altra jatetxea  e poi di un'altra ancora; lunghe teorie di tabernas e di banconi stracolmi di pinchos si succedono nelle strade del centro storico, soprattutto in Kalea 31 de Agosto.
Tambasiare di taberna in taberna  fino a che l’aperitivo sostituisca il pranzo, la merenda e pure la cena.
Come l’ape con il fiore, appunto.


Mundaka  è un piccolo borgo situato  nella  Riserva della Biosfera di Urdaibai, all’estremità dell’estuario del fiume Oka.
E’ il paradiso europeo dei surfisti.
Dicono.
Dei principianti, sicuramente.
Acquattati come patelle sulle tavole, ne ho visti tanti. 

Di quelli che volano sull’onda, manco mezzo.
Non ho visto manco l’onda, la verità.
Mundaka


Invece di quelli che volano sulla tavola e basta, gli skaters, ce ne sono  eccome.
Anche sui muri.


Playa de Laidatxu


La spiaggia di Laidatxu  è una profonda lingua di sabbia che si insinua nella costa rocciosa.
(una costa frastagliatissima)
In poco tempo la bassa marea scopre  lunghe oasi di sabbia, le due rive del fiordo sembra possano essere raggiunte a piedi senza bagnarsi.
Di sera  si va a raccogliere le ostriche.
Gli scogli ne sono pieni.



Il mare entra a Mundaka e Mundaka si  protende sul mare: passerelle, piattaforme, scalette, corridoi in metallo sono stati costruiti  in più punti della costa per permettere agevolmente il passaggio in acqua.
Ma il mare, mondo boia, è di un freddo gelido.

Sull’altra riva dell’estuario  c’è la spiaggia di Laida.
Playa de Laida

Bellissima.
Chiusa da Capo de Ogono, si accoccola  la spiaggia di Laga
Ancora più bella. 
Camperisti liberi, molti gggiovani.
(cape pazze, si capisce)
Qui ci sono i anche i surfisti, quelli veri.
Al tramonto, alle dieci di sera, sembrano gabbiani.
Playa de Laga



porticciolo Mundaka
Mundaka

Piove.
Piove e le previsioni non promettono nulla di buono.
(pioverà anche domani, e l'altro domani ancora)
Dato l'aspetto scandinavo di questa zona, e il verde verde verde delle alture, mi chiedo se la pioggia non sia la costante, e non l'eccezione che come la nuvola di fantozzi perseguita me dovunque vada.



E mannaggia, come si fanno le escursioni nei boschi con la pioggia?