giovedì 24 novembre 2011

Arbore salvatico

"L'arboreto, dicono i dizionari, è una raccolta di alberi che vengono osservati e studiati dal punto di vista botanico, forestale, agricolo, ecologico, estetico eccetera  (...) Ma "salvatico"? L'aggettivo era usato nel Rinascimento per selvatico: due parole che messe insieme mi piacciono, anche se in contraddizione tra loro: selvatico è non coltivato, non domestico, ricoperto da selve, anche rozzo; ma c'è la vocale A al posto di  una e, così tutto cambia: un salvatico che diventa salvifico, che conduce alla salvezza."

Mario Rigoni Stern "Arboreto salvatico" nota all'edizione 1996 pag. VII

Non ci avevo fatto caso. 
Quanto sono distratta.
Il fastidio per lo scuncicamento del manto stradale, per la difficoltà a camminare, esercito in fila indiana, tra i fuossi e le pietre, nel corridoio  creato per permettere l'accesso all'edificio, (quando, ma quando finiranno i lavori di sistemazione che porteranno all'allargamento del marciapiede? ) si è preso tutta l'attenzione.
Hanno abbattuto gli alberi.
Due pini, due mimose, una magnolia: questo era l'arboreto salvatico.

Nelle attese, piuttosto che guardare le facce, le scarpe, i tacchi e le borse della spesa,  spesso fissavo le gemme dei pini.
Più verdi, meno verdi, quante sfumature di verde su un solo ramo, le gemme sbottavano anche su quelli che sembravano secchi.
Osservavo tronco e rami e aghi alla ricerca di indizi della ricomparsa delle processionarie. 
(Un dramma fu la comparsa delle processionarie, una tragedia, una sciagura; chiusura dell' edificio, disinfestazione.  Eppure, allora non furono abbattuti,  i pini)
E la mimosa.
Fioriva già a gennaio, sempre. Quasi di botto.
Da un giorno all'altro si riempiva di fiori, un'esplosione di giallo tra i cappotti e i cappelli scuri.
Una meraviglia, la promessa della fine dell'inverno.
(Finiranno le  brevi e cupe giornate, tornerà il tempo dell'aria aperta e dei leggeri pensieri)
Allegria.
L'odore pungente, acutissimo.
Come passare per un attimo in un altrove.

In uno slargo di grigio asfalto, circondato da un alto  muro di cemento, è rimasta solitaria la magnolia.
La sua ombra sarà contesa al centimetro, in estate.
Non è mai fiorita, la magnolia.
Arbore salvatico, memoria del microscopico arboreto salvifico.







sabato 19 novembre 2011

Dodecalogo della scrittura del racconto


Andrès Neuman, classe '77, è nato in Argentina e vive in Spagna.
Una rivelazione nel campo della letteratura, a quanto dicono critica e pubblico spagnoli e non solo.
(E tiene pure la faccia simpatica).
In italiano sono stati pubblicati, della sua già corposetta bibliografia (trans-genere, dalla narrativa alla poesia alla saggistica), solo due libri: Il viaggiatore del secolo e Una volta l'Argentina.
Libri che, naturalmente, non ho letto (semplice dovere di cronaca).
Ho letto però due racconti, "Vasca" e "Rebobinando" appositamente  tradotti  da una voce e mano amica, tratti dalla raccolta  "El último minuto".
M'hanno impressionato.
Belli assai, assai.
(e tranne poche eccezioni, penso alle "Storie di cronopios e famas", i racconti non mi pippano per niente)



Nella raccolta  vi è un'appendice con riflessioni teoriche sull'arte del  raccontare  (fuga della mente verso "Bestiario" di Cortázar e le appendici "Alcuni aspetti del racconto" e "Del racconto breve e dintorni")
E dall'appendice "Il racconto, variazioni", contenuta in "El último minuto", questo è il dodecalogo.


Dodecalogo della scrittura del racconto.

(...)
Prima d’ogni altra considerazione, mi piacerebbe proporre un piccolo decalogo pratico attorno al racconto.  Ammetto che, in ambito saggistico, m’interessa molto di più una teoria della scrittura che la teoria o la storia della letteratura. Naturalmente,  le convinzioni teoriche d’uno scrittore solitamente non precedono la scrittura stessa, ma derivano dai suoi risultati.
Vediamo allora in sintesi questi soggettivi enunciati:
I)     Raccontare un racconto è saper mantenere un segreto.
II)   I racconti accadono sempre ora, anche quando parlano del passato. Non c’è tempo per altro, e non           ce n’è bisogno.
III)   L’eccessivo sviluppo della trama è l’anemia del racconto. O, per meglio dire,  la sua morte per asfissia.
IV)    Nelle prime righe del racconto si mette in gioco la vita; nelle ultime righe, la resurrezione. Quanto al titolo, al contrario di ciò che molti pensano, se è troppo brillante  si dimentica facilmente.
V)        I personaggi non si presentano: semplicemente agiscono
VI)  L’atmosfera può essere la cosa più memorabile in un soggetto. Lo sguardo può essere il  personaggio principale.
VII)      In narrativa, il lirismo misurato  produce magie. Il lirismo sfrenato trucchi.
VIII)  La voce del narratore è tanto importante, che non deve essere notata. Risulta più facile mentire usando discrezione che attraverso l’ostentazione o l’artificio.
IX)  Salvo eccezioni che possono essere citate, la frase breve è la più naturale in un racconto. Correggere: ridurre.
X)     Il talento è il ritmo. I problemi più sottili cominciano con la punteggiatura.
XI)    In un racconto, un minuto può essere eterno e l’eternità può essere racchiusa in un minuto.
XII)    Terminare un racconto è saper tacere in tempo.

Effettivamente. Pratico. 
E, pensando al racconto in generale, quelli che hanno impresso un segno sono rispondenti, in modo ortodosso, al dodecalogo.



giovedì 17 novembre 2011

Teatranti

Potrebbero  mai bastare ad una scuola che vuole definirsi delle opportunità, della formazione globale, dei blablablablabla multipli, le striminzite 27 ore curricolari in classi dove sono stipate dalle 24 alle 28 creaturelle?
Certo che no.
Allora  germinano sbocciano fioriscono progetti su progetti di ogni specie, dal giardinaggio [a zappare la terra!] alla psicomotricità, dall'arte della ceramica a quella della costruzione di aquiloni.
Naturalmente, i fanciullini attratti dalla gestualità, dalla mimica, dalla recitazione, dall'arte del travestimento e dell'impersonificazione delle alterità (ma anche messi lì solo per a fare numero), vengono arruolati in megaroboanti progetti teatrali.
(assecondiamo le vocazioni)
Meglio se i progetti si propongono anche come percorsi di educazione alla conoscenza del territorio,  alla riscoperta delle radici, alla valorizzazione cultura locale, chiossape, nun sia mai si dovesse perdere l'identità.
Il corso di teatro si conclude, ovviamente, con la messa in scena. 
La recita finale.
Nello specifico osservato, la messa in scena delle "Voci 'e Napoli"

" 'A ruuta, 'a menta, 'o vasinicooooore!"

" 'E ttengo belle nere nere, 'e mulignaaaaaaane!"

" Tengo 'a fava che schiatta 'a tiaaaaaana!"

Voci di mercato, voci di venditori ambulanti.
E canzuncelle funiculì funiculà, jamm jamm.

Vorrei vedere come fanno a spiegare ai bambinelli che cosa significa tengo la fava che schiatta la tiana.*
(e il suo altissimo valore culturale)


*pentola

venerdì 11 novembre 2011

Specchio, servo delle (altrui) brame

Si muovono veloci le sue mani, rapide, esperte, zruum zruum.
Tento faticosamente, come al solito, di seguire le parole del libro che mi ostino a tenere aperto mentre la parrucchiera mi inciarma 'ncapa.
Improvvisamente si ferma, lasciando le mani e la spazzola a mezz'aria.
Mi guarda.
Interrompo la finta lettura.
Si avvicina, mi punta gli occhi in faccia, stranita.
- Che è? - dico, guardandomi nel megaspecchio che ci contiene entrambe.
Indica con il manico della spazzola un punto, collocato approssimativamente sulla fronte.
- Che è? - ridico, allarmandomi.
[Un'ustione, una bruciatura, oddio, non ho sentito dolore, sono diventata insensibile ]
- Un capello bianco.
Mi osservo.
- Ehhh, figuriamoci, e che sarà mai! Uno solo?
- Ma è sul sopracciciglio!

Mi azzecco allo specchio. Cazzarola, ha ragione.
Un capello, quale pelo,lungo lungo, bianco quasi trasparente, la radice fissata al centro del sopracciglio.
E quando mi è spuntato??
Eppure, almeno tre volte al giorno, quando mi lavo i denti, nello specchio mi ci vedo.
(Vedere senza guardare, specchio senza brame)

lunedì 7 novembre 2011

Montone, pecora, agnello.

Ho deciso di fare collezione di chicche.
Non perchè voglia a imperitura memoria (mia) fissare le corbellerie e le superficialità e le sconvolgenti ignoranze.
E neanche per lo sconforto o la delusione o l'incazzatura (quelle sempre dopo)
Voglio ricordare la roboante, tuonante, squassante, esplosione della risata.
(E la tenerezza immediata)
Chè altrimenti tra chiacchiere a vacante e montagne di scartoffie ci sarebbe da desiderare di essere ... mhmmm, vabbè.
La colpa è mia, che tengo i motilli frenesianti e cerco di portare il tono del ragionamenti su livelli interplanetari, pretendendo di partire da una lettura che racconta di Mamhud il macellaio (ribattezzato all'unanimità dalla classe Muamad), artista della preparazione del Kebab per arrivare nientepopodimenoche all'analisi argomentativa della frase "Il cibo è cultura".
Ci si imbatte nella carne di montone.
Chiedo, così, per eccesso di scrupolo.
"Lo sapete cos'è un montone, vero?"
Facce sconcertate, bocche cucite.
Si apre, in primo piano al primo banco, un sorriso, e un guizzo dell'occhio che mi guarda mi rivela che la soluzione al terribile quesito è in dirittura d'arrivo.
"Un animale!"

[Rido - Carne di minerale o di vegetale, non l'ho mai mangiata - Ridono.]

Non è colpa loro se non hanno mai visto Babe.

mercoledì 2 novembre 2011

La casa di Bernarda Alba: grotta, tomba, covo di vipere.


Il Mercadante è un teatro piccolo.
Non ricordavo il boccascena riempito da  una gradinata  su cui sono schierate file di poltroncine in plastica rosse.  
O lo hanno ampliato, oppure è una scelta scenografica fatta ad hoc per la Bernarda.
Le attrici  dunque recitano su una passerella, al centro. 
Recitano nel cuore della casa, tutta bianca, eppur c'è sempre da strigliare e pulire.
Vicini vicini vicini, a star seduti nelle prime file della platea  basterebbe allungare una  mano e afferrare la caviglia delle attrici.
Schiava della perenne distrazione, non ho potuto  fare a meno di soffermarmi sulle facce del pubblico  di fronte, tranne quando la scenografia prevedeva una sorta di tendina che "oscurava" la scena, nascondendo completamente  il pubblico di fronte. 
E che strano vedere le attrici chinarsi da ambo i lati, per accogliere l'applauso conclusivo,  schiena e suo fondo  una volta, capo chino un'altra.
Comunque.

Passato il tempo della distr-azione, la piece si sedimenta.

"La casa di Bernarda Alba", è  uno degli ultimi lavori  di Federico Garcia Lorca, prima che venisse ucciso  nel 1936. 
Una rappresentazione di una  cupezza angosciosa e angosciante, accentuata dal  coro di donne vestite a lutto, una sfliza di zì monache,  che cantano canzoni di chiesa e come ali nere e lente spostano gli oggetti di scena. 
(Brave tutte, le attrici, ma più di ogni altra, la Maria Grazia Mandruzzato, la serva La Ponzia, una forza espressiva davvero straordinaria.)

A solcare la scena ci sono solo donne. 
Ma la  presenza degli uomini, il morto e il vivo,  pur nella assenza scenica, è invasiva e ingombrante.
Tante donne per descrivere una società maschilista e oppressiva.
Il morto,  con il funerale del quale inizia lo spettacolo, è il marito di Bernarda.
Il morto genera 8 anni di lutto e trasforma la casa in una gabbia, in  un sepolcro per le 5 figlie e anche per la nonna pazza.
Ma è la Madre a deciderlo.

Il vivo è Pepe, il ragazzo più bello del paese (e cazzarola, avrei voluto vedere quant'era bello stu mobile, e invece manco la voce fuori scena si sente).
Il vivo vuole la dote, punta la figlia  maggiore di Bernarda, nata dal primo matrimonio, l'unica che ci ha i sordi, ma non la giovinezza, nè la grazia, nè la bellezza. 
Il vivo vuole l'ammore, punta la figlia minore di Bernarda, che se ne frega delle chiacchiere e dei comandamenti, segue la pulsione, l'istinto, amore e morte.
La casa di Bernarda diventa un crogiuolo di rancori, di invidie, di dolore. 
Ma che nessuno sappia, mai.
La censura dei sentimenti e della libertà, sotto un velo opaco e torbido.
Per opera della Madre.


Sicuramente la storia è denuncia di un tempo e di uno spazio e di una mentalità, oltre ad essere  metafora delle dittature fasciste. 
Ma.
Non ho potuto fare a meno di pensare - altro che  angeli del focolare - a quanto spesso le madri si facciano custodi e vestali dell' orrore. 
Anche quando sollecitano  le proprie figlie a partecipare ai  bunga bunga.