Era da tempo che non leggevo un libro capace di indurmi a produrre un migliaio e passa di pensieri.
(non so mica se è una cosa buona, però)
E’ successo con Chesil Beach di McEwan.
Letto anche un poco prevenuta, che Sabato dello stesso autore mi parve una palla cosmica.
(e nonostante abbia adorato il libricino per ragazzi L’inventore dei sogni)
Mica mi ricordo com’è che ho deciso di leggerlo.
(ah, usato come tagliamattunazzo, ecco, mò sì)
Fatto sta, che mentre lo leggevo, pensavo a quanto distante fosse quella storia dai nostri tempi, da me.
E invece alla fine mi ha coinvolto molto molto più di quanto potessi mai immaginare all’inizio.
“Erano ancora i tempi, destinati a concludersi alla fine di quel famoso decennio, in cui essere giovani costituiva un ingombro sociale, un marchio di irrilevanza, una condizione di leggero imbarazzo per la quale il matrimonio rappresentava l’inizio di una terapia.”
Erano i primi anni ’60.
Una preistoria, data la difficoltà a immedesimarsi non tanto nei personaggi, quanto nella situazione.
Florence e Edward, poco più che ventenni, lei musicista, lui laureato in storia, di famiglia altoborghese e poco incline alle affettuosità lei, di famiglia scumbinata e calorosamente fingitrice lui, si incontrano, si innamorano, decidono di sposarsi.
Un anno di castissime passeggiate, sguardi, sogni di un futuro radioso, Edward arruolato nell’azienda del suocero, che non manchi il buon lavoro segno di distinzione sociale.
Ma qualcosa non va, si inceppa, si blocca.
La prima notte di nozze si rivela una tragedia, tale che i due, a Chesil Beach, luogo ideale per la luna di miele, si separano per non incontrarsi mai più.
Matrimonio non consumato.
(Ma che brutta espressione, consumare il matrimonio, a rigor di logica il matrimonio si è consumato e pure velocemente, si è proprio svaporato)
La voce del narratore adotta, nel racconto della notte a Chesil Beach, ora il punto di vista di Florence ora il punto di vista di Edward, attraverso flash back fornisce descrizioni delle loro vite familiari e dei loro incontri e rapporti e pensieri e paure prematrimoniali, e solo dalla prospettiva di Edward, segue ciò che accade dopo.
La voce di Florence è prevalentemente la voce del presente: i sensi di colpa e il senso di schifo nella prima notte di nozze.
Di Florence non sapremo più nulla, tranne che diventerà una musicista famosa, mentre Edward a sessant’anni si chiederà ancora cosa sarebbe successo se l’avesse rincorsa, se avesse avuto pazienza, se e se.
E se Florence avesse detto subito del suo problema, già nella serata del cinema, senza illudersi di poterlo gestire in seguito?
[E se Maria o Michele avessero immediatamente detto o tu o mammete, non vi voglio prendere in paranza?
E se Lucia avesse detto o ti metti con la capa a fa bene e la finisci di toccare il culo a tutte le femmine e poi ne parliamo, senza illudersi che mettere l’anello al dito equivalga a mettere l’anello al pisello?]
Cosa sarebbe successo a Florence e Edward, se Florence avesse parlato prima, se Edward avesse chiesto prima.
Si sarebbero sposati ugualmente, per poi trascinare per anni pensieri e parole rimbrottose, le accuse – iotihosposatanonostantetufossifrigida chitelohachiesto?Lohaifattoperisoldieperlafabbricadipapà, - oppure sarebbe finita prima di cominciare?
Dicevo che è difficile immedesimarsi nella situazione, ma basta spostare l’asse di osservazione dal problema specifico, la frigidità di Florence e l’urgenza amorosa di Edward “esplose” nella prima notte di nozze, con il loro carico di sensi di colpa, di inadeguatezza, di vergogna e di incapacità di sentirsi "adulti, per ritrovare nel libro una dimensione “universale”.
Così l'ho letto non nella sua valenza storica, ovvero relativamente alla difficoltà di vivere in modo "naturale" certe esperienze fuori dai condizionamenti sociali e dai tabù (anche quelli autogenerati), nè come un libro sull'incomunicabilità, sia nella coppia che nel microtessuto familiare, quanto come un libro sulla errata percezione che abbiamo di noi stessi, della nostra capacità di “tenuta” e della capacità di “tenuta” dell’altro.
(Quanto posso durare, senza mentire a me stesso, senza esplodere)
Tra i due personaggi della storia, la mia simpatia e comprensione va ad Edward.
Ma forse solo perché il vero problema di Florence non è tanto la frigidità, quanto un atteggiamento mentale che spesso è anche mio, e che in parte detesto.
E’ quello di una vita tenuta sempre sotto stretto controllo, governata con il rigore dell’archetto sullo strumento.
“Sapeva benissimo che la gente litiga, anche in modo burrascoso magari, e poi si riconcilia. Ma non aveva idea di come iniziare: molto semplicemente non conosceva il trucco, il dissidio che rasserena, e non era mai riuscita a convincersi del tutto che le parole ostili potessero essere cancellate e dimenticate.”
Un libro molto bello, questo di McEwan.
Bello come tutti i libri che trascendono la storia che raccontano.
Quando lo lessi mi feci condizionare dal sentimento d'insofferenza nei confronti soprattutto di Florence, per quella assurda irresolutezza estenuante ed irritante che per me non era giustificabile da nessuna motivazione relativa ad educazione sensi di colpa e quant'altro. Però il tuo punto di visto di lettrice che coglie nel libro "l' errata percezione che abbiamo di noi stessi, della nostra capacità di “tenuta” e della capacità di “tenuta” dell’altro.", è un aspetto interessante che condivido.
RispondiEliminahai fatto la tua solita magia: all'inizio ho pensato " a me cosa cavolo importa di questo libro? Non lo leggerò mai" . Dopo averti letta, alla fine ho pensato:" Bello ! Me lo vado subito a comprare"
RispondiEliminaL'Einaudi dovrebbe ingaggiarti subito!
Distinguere la parte che detesti da quella che no, è ancora lavoro d'architetto. A vivere però si è manovali, impilando i momenti all'impronta. Lo si ammetta e lo spartito comparirà.
RispondiEliminaMmmm, mi sa che dovrei prenderlo nuovamente in prestito e rileggerlo...
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