Buzzati, Buzzati.
Che ne so io di Buzzati, dopo aver finito di leggere i Sessanta racconti e oltre alla vaga reminescenza de Il deserto dei tartari letto nel cenozoico e a non significativi cenni biografici?
Niente.
Sarebbe il caso di studiare, di cercare, di andare oltre la semplice lettura dei racconti , poiché così, a sentimento, quasi tutti mi hanno ispirato collegamenti anche arditi, arditissimi.
[Ma poiché non devo fare esami e non mi devo sottoporre a nessuna valutazione, non devo tenere seminari e manco una lezione, anche stavolta passerò oltre, o cazzeggerò invece di approfondire]
Il filo rosso che lega tutti i racconti, pure nella varietà e nella multiformità, è una vena di inquietudine.
Quasi tutti sono ricoperti di un sottile velo di disfatta, sia che parlino di storie d’amore , sia che raccontino di epidemie che colpiscono le automobili.
Non mi soffermerò su tutti i racconti, e neanche sui miei preferiti che sono, in ordine di apparizione, "L’assalto al grande convoglio"
"Sette piani"
"Il borghese stregato"
"Sciopero dei telefoni" - una vera chicca, nel quale vi è anche l’intuizione del potere delle chat "E ciascuno credette di parlare con donne giovani e bellissime, ciascuna si illudeva che dall’altra parte dei fili ci fossero uomini di magnifico aspetto, ricchi, interessanti…"
"Grandezza dell’uomo".
Ma qualche parulella almeno sul racconto Il critico d’arte, non solo perché è un’arguta e ironica riflessione sullo strapotere della critica e sul rapporto tra codice artistico figurativo e sua transcodificazione nel linguaggio, ma anche per altri rimandi.
Il critico d’arte è Paolo Malusardi che alla Biennale, davanti alle opere di Leo Squittinna, ha uno sbandamento: il nome gli ricorda vagamente qualcosa, i suoi quadri non gli dicono invece proprio nulla.
S’incorna e rischia: decide comunque di scrivere un articolo, sperando di rivelarsi scopritore di talenti passati inosservati, e far così schiattare di invidia i colleghi.
(quali nobili intenzioni!)
Cosa dire, però.
“Potrei dire che Squittinna è un astrattista. Che i suoi quadri non vogliono rappresentare niente. Che il suo linguaggio è un puro gioco….”
Poi l’illuminazione: far nascere dall’astrattismo una critica astrattista, infrangendo tutte le catene del linguaggio.
“"Il pittore" scrisse, padroneggiato da un incalzante raptus”di del dal col affioriccio ganolsi coscienziamo la simileguarsi. Recusia estemesica! Altrinon si memocherebbe il persuo stisse in corisadicone elibuttorro. Ziano che dimannuce lo qualitare rumelettico di sabirespo padronò. E sonfio tezio e stampo egualiterebbero nello Squittina il trilismo scernosti d’ancomacona percussi. Tambron tambron, quilera dovressimo, ghiendola namicadi coi tuffro fulcrosi, quantano, sul gicla d’nogiche i metazioni, gosibarrre, che piò levapo si su predomioranzabelusmetico, rifè comerizzando per rerare la biffetta posca o pisca. Verè chi…”
Chiossape, mi sono chiesta, se Fosco Maraini e le sue fànfole….
E mi sono chiesta anche quanta laicità vi sia in Buzzati: pensando ai racconti "Il cane che ha visto Dio", "I reziari", "L’uomo che volle guarire", "24 marzo 1958", "Le tentazioni di Sant’Antonio", "Il disco si posò": mi è sembrato molto presente un sentire religioso, ma più che come anelito, come ingombro.
Un altro motivo di inquietudine, tra i tanti senza forma e senza nome che popolano i sessanti racconti.
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