mercoledì 20 febbraio 2013

Il pleut


C’è un motivo per cui Natura morta con picchio  ha stazionato sotto i miei occhi per un fottio di tempo, che manco Dostoevskij.
Anzi più di uno.
Ruzzle, il primo. 
Vita e opinioni di Tristan Shandy di Sterne, secondo.
Le montagne di chiacchiere dell’uno e dell’altro, terzo.
Non è possibile fare un confronto tra i due libri, non è questione di  stelle e stalle: sono inconfrontabili, carne e pesce.
Tuttavia  una sottile linea li unisce: il piacere della divagazione, che determina l’ inevitabile caduta della mia  concentrazione e  attenzione, visto che già autonomamente e senza particolari sollecitazioni divago pure su un monolite. 

Tra i tanti, tantissimi fuori traccia di Natura morta con picchio – del resto lo dice pure Robbins, che è “l’incontro ravvicinato tra oggetti animati e oggetti inanimati uno dei temi del libro” , oltre alla parentesi  sulla mitologia del fuoco legata all’atto del fumare, almeno un altro.

Pioggia. 


Sul continente pioveva. La celebre pioggia di Seattle. La sottile pioggia grigia che i funghi  velenosi adorano. La persistente pioggia che conosce ogni più nascosto accesso nei colletti e nelle sporte. La pioggia quieta che sa arrugginire un tetto di latta senza che questo faccia il benché minimo rumorino di protesta. La sciamanica pioggia che alimenta l’immaginazione. La pioggia che sembra in realtà un idioma segreto, un sussurro simile all’estasi del primitivi, all’essenza delle cose. In realtà la pioggia serve a molte cose. Impedisce al sangue e al mare di farsi troppo salati. Somministra gocce da K.O. alle viole indisciplinate. Erige la scala che il neon risale fino alla luna.





Manco sotto sforzo e dietro lauto compenso, riuscirei  ad associare alla pioggia immagini  poetiche, quale  idioma segreto e sussurro simile all’estasi dei primitivi, e se piove nel pineto e il verde vigor rude ci allaccia i malleoli ci intrica i ginocchi, penso solo che affondiamo nella lota e gli inzaccheri di fango  ci arrivano fin sotto le mutande.
In ordine, quando il pleut, penso a:
- gli ombrelli che quando servono non ci sono mai, se appena comprati si perdono immediatamente, lasciati in ogni dove,  restano gli  stazionanti nel portaombrelli  che sono scassati e dovrebbero stare nella munnezza, intanto possono ancora servire,  tenendo la stecca dritta  con  una  mano. 
- le scarpe inzuppate  e anche i pantaloni, che  fanno  quel simpatico effetto risucchia acqua, assorbendola  in verticale. 
- l’effetto  umidiccio che pare attraversare, manco un raggio x, finanche  il midollo osseo.
- il colore plumbeo del cielo  quando dovrebbero comparire le dita rosa di Eos, fatto  che mi si macigna nel cervello e mi dispone malamente  per tutto il giorno (meteoropatismo acuto)
- i lavaroni che coprono i fuossi nella strada che abitualmente percorro per andare al lavoro, e anche se conosco le buche  ad occhi chiusi e zigzago a memoria, resta sempre l’incognita  dell’apertura di nuove voragini subdolamente  nascoste dall’acqua. 

Potrei continuare ad libitum.
Lo faccio fare a Luciano Folgore.
Alla sua rivisitazione  de “La pioggia nel pineto”


La pioggia sul cappello.

Silenzio. Il cielo 
è diventato una nube, 
vedo oscurarsi le tube 
non vedo l’ombrello, 
ma odo sul mio cappello 
di paglia, 
da venti dracne e cinquanta 
la gocciola che si schianta, 
come una bolla, 
tra il nastro e la colla. 
Per Giove, piove 
sicuramente, 
piove sulle matrone 
vestite di niente, 
piove sui bambini 
recalcitranti, 
piove sui mezzi guanti 
turchini, 
piove sulle giunoni, 
sulle veneri a passeggio, 
piove sopra i catoni, 
e, quello ch’è peggio, 
piove sul tuo cappello 
leggiadro, 
che ieri ho pagato, 
che oggi si guasta; 
piove, governo ladro! .... 

L’odi tu? Non è di passaggio 
come l’acqua 
di maggio, 
che sciacqua la terra e la monda. 
Sgronda terribilmente; 
si sente il blasfemo 
di un polifèmo ambulante, 
si veggono ninfe e atalante 
fuggire in un angiporto; 
Plutone più vivo che morto 
si pone una nivea pezzuola 
sul feltro che cola; 
Diana s’accorcia la tunica 
fin quasi all’altezza del femore, 
e Dedalo immemore a Marte 
con toga a due petti e speroni 
s’impalano ai muri con arte 
per evitare i doccioni. 
Cibele fa segno all’auriga 
che incurva il soffietto alla biga, 
e monta sul cocchio 
mentre la furia di Eolo 
le palpa il malleolo 
le morde il polpaccio, 
si sfibia 
d’intorno allo stinco e alla tibia.

Bagnati dal coccige al collo, 
dal naso al tallone d’Achille, 
fradici fino al midollo, 
cugini alle anguille, 
nubili d’ombrello, 
col solo cappello, 
sentiamo che l’essere anfibi 
sarebbe un superbo destino, 
te biscia, 
io girino, 
e liscia la piova del giorno 
ci colerebbe d’attorno, 
non come Issïone 
che fece la ruota a Giunone, 
ma pari al Tritone 
cui Teti concesse 
- regalo di nume - 
di potersi fare 
un ampio palamidone 
di schiume di mare.

E piove sempre, 
sul càmice mio, 
sul peplo tuo 
colore oramai dell’oblio, 
piove sul croceo e l’eburno 
del tuo moccichino di seta, 
piove sul cromo del mio coturno 
che s’impatacca di creta, 
piove sopra il cinabro 
che t’impomidaura il labro, 
piove sui tremoli tocchi 
che t’anneriscono gli occhi, 
e andiamo d’androne 
in androne, 
con facce da mascherone, 
squadrandoci obliquamente 
se qualche pozza lucente 
ci specchia e ci invecchia 
per farci morir di furore, 
Narcisi 
dai visi colore 
di colla di paglia, 
di succo di nastro, 
d’impiastro di minio, 
di guazzo assassino 
di cipria e di carboncino.

E piove a dirotto 
da tutte le nubi, 
piove dai tubi 
sfasciati 
dell’acquedotto 
del cielo, 
piove sui cani spelati, 
piove sul melo e sul tiglio, 
piove sul padre e sul figlio, 
piove sui putti lattanti 
sui sandali rutilanti, 
su Pègaso bolso, 
su orïolo da polso, 
piove sul tuo vestitino, 
che m’è costato un tesauro, 
piove sulla salvia e sul lauro 
sull’erbetta e sul rosmarino, 
piove sulle vergini schive, 
piove su Pàsife e Bacco, 
piove persin sulle pive 
nel sacco. 
E piove sopra tutto 
sul tuo cappello distrutto 
mutato in setaccio, 
che ieri ho pagato 
che adesso è uno straccio, 
o Ermïone 
che scordi a casa l’ombrello 
nei giorni di mezza stagione.

6 commenti:

  1. E annegando senza ombrello
    getto via pure il cappello.
    Lo pesticcio e un po' m'offendo
    perché il cielo sta piangendo.
    Non mi giova per Giunone
    inzupparmi da coglione.

    :)

    Detesto la pioggia.

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  2. ...e vivendo in un paese
    dove piove a più riprese,
    dove il tempo è spesso matto,
    alla pioggia, ahimé, mi adatto...

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    1. appunto, ahité :)
      (adattarsi, insomma, mica ti fa piacere)

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  3. Quando piove e sono con te e c'è l'ombrello,
    non andiamo 'or congiunti or disciolti',
    ma unita a me di spalla tu parli e ascolti,
    e io così sono più bello.

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