Un qualche sospetto mi era sovvenuto, leggendo l'ultimo libro di Alberto Capitta, Alberi erranti e naufraghi,
vincitore del premio Brancati, ed ora che ho letto il suo primo romanzo ne ho avuto conferma.
A Capitta non interessa la
storia, intesa come intreccio, viluppo di situazioni, vasta articolazione di trama.
Semplificando, ma semplificando assaissimo, a Capitta non interessa il "romanzo", ma la “poesia”.
Norma e Domenico sono madre e figlio.
Sono molto legati,
quasi complici.
Del padre Domè non sa nulla. La madre con figlio piccinino al
seguito dalle montagne del continente si trasferisce a Caprera, dove acquista la fama di strega.
Raccoglie le erbe e le conchiglie, ha un occhio nella gola e
vede, come suo figlio, i vicini di casa trasformarsi in animali.
Norma è gelosa della terra che Domè ha avuto in concessione
dal Compendio Garibaldino e che “alleva”
come un figlio.
“Auscultò il respiro profondo della terra, recepì dalla
pianta dei piedi il concitato tramestio delle materie organiche in disfacimento
sotto di lui quando esse si frantumano, per riapparire sotto la spinta ossessiva della
rigenerazione, riformulate in bacche e germogli.”
Domenico è geloso delle attenzioni di Centogalli, che
s’innamora di sua madre.
Norma è gelosa della puttana di cui si innamora suo figlio.
Il loro legame, che li rende monadi nella comunità isolana,
isole nell’isola, ha qualcosa di
morboso, di eccessivo.
Dopo grandi litigi e grandi spaccature, e dopo anni di vite separate, è al
nido, alla madre che Domenico ritorna.
I figli sopravvivono di solito ai genitori.
Ma quando i figli non sono altro che ombelichi, e non frecce scagliate dall’arco, cosa
resta “dopo”, se non un’immensa solitudine, così grande da creare fantasmi e
fantasie, così grande da evocare addirittura Garibaldi con tanto di
divisa e mantello, un Garibaldi con cui dividere i pasti e le corse sull’Ape
rimontata?
“Quante volte la vita si riduce a una semplice sfilata di
carri in fila indiana carichi di facce e
odori, donne, letti, bare culle, prati? Ma fermarsi alla memoria è troppo poco
se non ci sono più strade da ricondurti a una ragione originale, se sei così
solo da cercare in ogni suono e in ogni fraseggio una prova della tua
esistenza. Domenico esiste nella luce gelata dalla tazza all’albero. Solo
questo.”
Tuttavia, l’osso del racconto non è la storia di Domenico e
di Norma. La loro storia è l’epidermide.
L’osso, lo scheletro del racconto è nello stile, nella
“forma”, nelle metafore e nelle
sinestesie e metonimie ardite, nello slittamento di piani da quello umano a
quello vegetale o animale o a quello meccanico e viceversa, nella creazione di
immagini evocative come in questo passo che descrive
l’innamoramento del comandante Centogalli :
“Il comandante s’era invaghito di quell’essere tellurico in
una vampata estiva, durante una notte in cui tardava a prendere sonno sul
Cucciolo cullato dalle onde. Il vecchio barcone s’era sentito drizzare le barbe
del fasciame ai tanti sospiri amorosi. In punta di chiglia aveva disegnato
corolle sull’acqua, s’era ravviato il cordame, gonfiati i propulsori, spruzzato
di colonia i cespi d’alga a prua. Al mattino aveva dischiuso il boccaporto e il
vecchio Centogalli ne era emerso, stordito dai vapori di Norma, con una luce
nuova negli oblò.”
O in questo, in cui Norma sente avvicinarsi la morte:
“Si sentì invasa di freschezza, si sentì la carne incisa e
inumidirsi e aprirsi l’occhio in gola che perlustrò la spiaggia e i coni
d’ombra andando a soffermarsi infine sul soffitto del cielo illuminato dalla
collana di rune partorite dal cuore. Dalla gola Norma vide la vita incendiata
dalla morte, il mare dei defunti popolato di pesci miniati come necrofori di
ametista, vide il topo dal crisantemo in bocca voltarsi ad osservarla dalla
cima di un promontorio dello stomaco, razzolarle tra le valvole e i detriti,
rovistarle le latrine del duodeno.”
Mi piacciono i giochi formalistici, e non posso non
riconoscere a Capitta una scrittura originale, di effetto.
Tuttavia, non posso
neanche negare che alla lunga mi sia sembrata
un poco stucchevole.
Gli eccessi talvolta portano
ad una perdita di senso.
Prosa o poesia, è sempre una
questione di misura.
“vide il topo dal crisantemo in bocca voltarsi ad osservarla dalla cima di un promontorio dello stomaco, razzolarle tra le valvole e i detriti, rovistarle le latrine del duodeno”. No, non ce la posso fare.
RispondiEliminaEvvabbè, ma ho scelto due passi "limite" :)
Elimina(quello del capitano 'nnammurato, che mi è piaciuto assai, e quest'altro, che insomma...)
Il testo di Capitta è scaricabile gratuitamente qui, se vuoi provare:)
http://www.sardegnadigitallibrary.it/index.php?xsl=626&s=17&v=9&c=4463&id=66551
Lo scaricai. In fondo prima di criticare bisognerebbe provare…
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