giovedì 29 marzo 2018

Appunti per un naufragio.

Ci sono tanti modi per parlare del migranti, dei barconi che affondano nel mare di Lampedusa. Spesso pretesto per alzare muri, per fomentare sospetti e insofferenza, altrettanto spesso spettacolarizzazione del dramma fino a renderlo pura  retorica. 

La prospettiva che ha scelto Enia per raccontare di Lampedusa e dei barconi che vi approdano, con il loro carico di vivi e di morti, non esclude la cronaca, ma è intimo e profondo, muovendosi su un binario che affianca  ricordi e  affetti personali - del tutto avulsi dal dramma dei migranti -  e i naufragi, vissuti  soprattutto da chi si trova sull’isola come abitante, come soccorritore. 

Binari, due rotaie parallele che sembrano non incontrarsi mai, eppure collegate da molteplici traverse.

Nel linguaggio filosofico – secondo quanto riportato dal vocabolario Treccani, naufragio è  “termine con cui talora si rende in italiano il tedesco Scheitern con cui lo psicologo e filosofo tedesco Jaspers  esprime l’esperienza dell’impossibilità per l’uomo di superare le «situazioni-limite» (per esempio, non poter vivere senza lotta e dolore, essere destinato alla morte, ecc).”

In questa accezione mi piace pensare al naufragio di cui Enia scrive appunti. 
Naufragi, meglio, declinando al plurale, così come plurale sono le  storie  nel libro. 


La Storia collettiva è contemporaneamente  storia privata: la storia  di Paola, di Melo, di Simone, dei pescatori di Lampedusa e dei migranti:
Nascerà un’epica di Lampedusa. Sono centinaia di migliaia le persone transitate dall’isola […].
Ci vorranno anni […]. 
E saranno loro a spiegarci cosa è diventata l’Europa e a mostrarci, come uno specchio, chi siamo diventati noi.

La storia  privata è contemporaneamente Storia collettiva: il rapporto tra Davide Enia e suo padre, tra Davide e  suo zio Beppe, e quello tra i  due fratelli di fronte al naufragio  Scheitern  quale  è la malattia, il tumore che destina alla morte, specchio della condizione di tanti che vivono la paura di guardare davvero negli occhi l’altro, soprattutto se amato,  che  soffre. 

“No man is an Iland”, ma ogni uomo è “Lampedusa, da lepas, lo scoglio che scortica, eroso dalla furia degli elementi, che resiste e conferma una presenza, anche solitaria, nella smisurata vastità del mare aperto. Oppure, Lampedusa da lampas, la fiaccola che risplende nel buio, luce che sconfigge lo scuro.

Zio Beppe ha appena finito di leggere la prima bozza del libro:
Ci sono tanti naufragi qua dentro. E io? Ce l’ho un approdo, io?” Per tutto il tempo mi tenne la mano nella sua, accarezzandomela con le dita sottili. Io restai in silenzio, senza rispondere, guardandolo e basta. Non avevo ancora capito che la risposta era tutta lì, in quella carezza della nostre mani.”

Una carezza, una mano che tiene un’altra mano, è la risposta ad ogni naufragio. 

(checchè ne dicano i leghisti & co.)


appunti per un naufragio - davide enia


1 commento:

  1. Anche a me piacque tanto, sebbene la conclusione m'abbia lasciato un po' perplessa (troppo spazio alla parte privata. Ma è solo un personalissimo punto di vista).
    Poco prima, avevo letto un altro bel libro: Voci del verbo andare di Jenny Erpenbeck che, a mio avviso, s'incastra a meraviglia con il libro di Enia.
    è bello tornare a leggerti.

    RispondiElimina