sabato 15 agosto 2015

Pa(e)(s)saggi in Europa. Cinque (a): Oświęcim, Auschwitz/Birkenau, Polonia

Cracovia, anzi Auschwitz, l’ombelico del viaggio, il centro attorno al quale sono stati pensati gli altri passaggi. 
Su Google maps Auschwitz non c’è. 
Nelle indicazioni stradali non comparirà mai se non quasi arrivati al sito.
Si va  verso Oświęcim, il nome polacco che aveva la località prima dell’invasione nazista e di cui i polacchi si sono giustamente riappropriati. 
L’ingresso è libero e gratuito, formalmente, ma per “disciplinare” l’affluenza, nei mesi di luglio e agosto è possibile fare la visita solo con la guida, previa prenotazione. 


E’ comunque molto più conveniente prenotare direttamente sul sito e andarvi in autonomia, piuttosto che affidarsi alle agenzie turistiche che organizzano il tour:  certo, è incluso il trasporto dai punti convenuti a Cracovia o il prelievo diretto dall'albergo, ma il costo è più che triplicato. 
Certo, affidandosi alle agenzie o partendo da Cracovia  si riduce il rischio di inconvenienti, come trovare una fila di otto chilometri otto  - fila compatta e seminamovibile  dovuta a “lavori in corso” - poco prima di Brno, e vedere l’orologio del navigatore che indica l’orario di arrivo a destinazione sovrapporsi  all’orario di ingresso indicato sulla prenotazione. 
Certo, affidandosi alle agenzie o partendo da Cracovia si riduce il rischio di inconvenienti legati agli accidenti atmosferici, come un temporale di dimensioni catastrofiche, un muro d’acqua così denso e spesso da non lasciare vedere la strada (sconosciuta), anzi da dare la sensazione di trovarsi dentro un autolavaggio, con conseguente spostamento dell’orario di arrivo a destinazione ben oltre l’orario di ingresso indicato sulla prenotazione.
(Eccheccazz, tutto il viaggio è stato costruito su Auschwitz,  mò va a finire come per Pamplona e la festa di San Firmino dell’anno scorso?!?)

Sfidando i millanta limiti di velocità, complice la buona sorte, riusciamo ad arrivare pelo pelo, giusto il tempo di lasciare le borse al guardaroba –  all'ingresso vi sono più controlli che in aeroporto dopo un attentato terroristico, gli addetti alla  sicurezza hanno anche un cartoncino che indica materialmente le misure consentite per le borsette che possono entrare coi loro proprietari, borsellini in pratica -  , di superare i vari varchi (primo: lettura ottica del codice sui biglietti, secondo: metal detector come in aeroporto appunto, terzo: ritiro cuffie e audioguida) e ci si ritrova in coda al gruppo già radunato attorno alla guida. 

Ci sono silenzio e compostezza:   chi sceglie di visitare Auschwitz sa, ha la consapevolezza di essere lì, in Quel Luogo. 
I gruppi, con la propria guida,  sono formati al massimo 20 persone. 
Nel campo ci si muove compatti in  file serrate, a discreta distanza le une dalle altre. 
La nostra guida si chiama Marco. 
E’ flemmatico.
E’ svogliato.
E’ annoiato. 
Senza sapere, nessuno immaginerebbe quel luogo come l’inferno in terra. 
Sembra un quartiere operaio dismesso: è  tutto cosi ordinato, lindo, pinto, silente.
Se una voce non evoca i rumori, i suoni, gli odori, le storie, le vite, senza  la narratio, il luogo  si depotenzia tantissimo.
Mi sono auto-raccontata.
Ho considerato dimensioni, distanze, materiali. 
Ho realizzato la misura, nel vero senso della parola, della sistematicità dell’orrore. 
Nel nostro gruppo ci sono tre  ragazzini: due  si annoiano presto e si siedono per terra ad aspettare il ritorno dei genitori dalla visita. 
Capisco la loro indifferenza anche se non l'approvo. 
[La nostra guida forse avrebbe dovuto fare  il lavoro di controllo biglietti. 
I genitori forse avrebbero dovuto fare meglio i genitori]

Marco dice pochissimo, parla di numeri – ripete sempre gli stessi - e quello che dice non è nuovo. 
Del resto cosa aggiunge ad una foto in cui si vedono da un lato la fila dei deportati e dall’altro i nazisti dicendo: qui sono i deportati e qui i nazisti? 
Ma colgo, tra le rarissime didascalie, più che spiegazioni, delle  sfumature. 
Rarissimamente parla di ebrei. 
Più di una volta dice  di “ registrati senza alcuna differenza di ordine religioso.”
Sento come una sorta di risentimento:  i milioni di ebrei mandati a morire   offuscano le prime vittime dei nazisti, i polacchi. 
Il dramma gigante degli ebrei deportati ad Auschwitz da ogni punto dell’Europa occupata dai nazisti, ha nascosto il dramma –numericamente meno consistente, ma non per questo  meno importante – dei polacchi. 
Il campo era stato costruito per loro. Prigionieri politici. 
I villaggi attorno al campo furono rasi al suolo e i contadini internati. 
(Sette fattorie, dice Marco, c’erano a Oświęcim, attorno alla caserma dell’esercito polacco prima che diventasse Auschwitz)
Nelle case che si costruirono attorno vennero mandati i coloni tedeschi. 

[Mi viene il dubbio che la gestione e la volontà di farne museo e memoriale, almeno inizialmente,  sia legata a qualche ricca eminenza ebrea, non alla generalizzata volontà polacca che, forse, e dico forse,  avrebbe preferito dismettere, riconvertire, come è successo a Monowitz]

Sfumature: nessuna differenza di ordine religioso. 

In alcuni edifici  - block, il termine accomuna sia le palazzine in mattoni di Auschwitz che le baracche  di Birkenau - si entra. 
Ad Auschwitz le stanze sono vuote al centro, spoglie;   tutto è schiacciato sulle pareti, foto o grandi vetrine di profondità variabile, da uno a quattro metri, nelle quali, come in depositi o segrete, sono ammucchiati  oggetti.
Occhiali, tutti tondi e in metallo, migliaia e migliaia.
Pennelli da barba e pettini;  capelli;  abitini da neonato;   valigie, alcune con i nomi e indirizzi segnati, alcune con grafie elegantissime. 
Scarpe, 43000 paia: davanti, in primo piano, anche se in apparente disordine, le scarpe femminili con tacchetti, nastri, stringhe, ricami. 
Dietro una montagna di scarponi maschili. 
(Non è solo questione di estetica, la scelta di disporre così le scarpe. Le calzature femminili sono più distinguibili, hanno una varietà che fa pensare all’individualità, mentre gli scarponi maschili, eh, quelli conferiscono l’idea di massa indistinta)


A tre chilometri da Auschwitz c’è il campo di Birkenau,  Auschwitz 2.
Di Buna/Monowitz,  che sarebbe dovuto essere una mega fabbrica di prodotti  chimici,  dove fu deportato Primo Levi - il terzo dei campi che amministrativamente dipendevano da Auschwitz, insieme ad un’altra cinquantina di sottocampi/fattorie  dove i prigionieri lavoravano come schiavi contadini o schiavi operai -  non è rimasto niente.

Birkenau costituisce la seconda parte della visita guidata. 
Si raggiunge con un autobus/navetta: la partenza ogni sette minuti. 
(Ci vediamo lì tra venticinque minuti, avete tempo per caffè o comprare libro – dice Marco)
A Birkenau ci sono i binari che conducevano direttamente alle camere a gas. 
Oltre all’ingresso, ai binari, ad una locomotiva, alla recinzione in filo spinato, a qualche torretta, in piedi restano una ventina di baracche:  si intravedono tracciati di altre baracche, e un cumulo di  macerie segna il luogo dove c’era un crematorio. 
Solo in una baracca, dove sono disposte in stanze/pollaio i tavolati a castello su cui gli internati agonizzavano sonni, si entra. 
Non c'è nessuno oltre il nostro gruppetto di diciotto persone ripulite e profumate e fa un caldo bestiale. 
Non oso immaginare il calore e il fetore quando in quegli stessi spazi vi erano stipate centinaia e centinaia di esseri ormai quasi non più umani. 

All’estremità opposta all’ingresso del campo vi è il monumento commemorativo, davanti al quale ci sono tante lapidi, ognuna riporta lo stesso "pensiero" nelle lingue dei popoli che hanno vissuto la deportazione: quella con la scritta in ebraico è l'unica ricoperta di fiori e candele.
Nei pressi del monumento commemorativo ci sono  uomini e donne, alcuni in divisa: uno ha una tromba, un altro sta issando la bandiera di Israele, un altro ha la videocamera su un treppiede, altri aspettano qualcosa.
E' come se si preparassero per una rappresentazione.
Un altro gruppo, più numeroso, sosta più lontano ancora.
Chiedo alla guida cosa stiano facendo. 
Mi fa strano. Perché in divisa?
Risposta laconica.
"Ogni tanto fanno una commemorazione"
Si gira e se ne va. 
Come se l'interesse verso gli ebrei,  ancora una volta, avesse offuscato un’altra memoria.

(Sfumature)

Le fonti mute hanno bisogno di voci che le interpretino, che le raccontino.  

Ho  l'impressione che i polacchi abbiano verso questo luogo che è diventato gallina dalle uova d'oro un rapporto di odio/amore.
Più di odio che di amore, nonostante le uova.

Mi è  rimasta la curiosità di sapere, e  una brutta sensazione di spreco, di inutilità, anche se continuo a pensare che sia  - e sia stato anche per me  -  un pellegrinaggio necessario. 

2 commenti:

  1. Pensa, io questo pellegrinaggio ancora non riesco a farlo. Avrei potuto ma ho evitato. E' come se non mi sentissi pronta. Post impegnativo.

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  2. Molti anni fa, ho visitato uno dei campi meno famosi: Mathausen.
    Credo, lo riferisco per sentito dire, sia attorniato da uno dei paesaggi più belli, quieti e rasserenanti, come a dire: che schezi fa a volte l'orrore...
    Ho deciso che non ne avrei visti altri e, in tutta sincerità, credo di ricordarne poco ormai, ma non solo per il tempo trascorso da quella visita, penso più per la volontà inconscia di alleggerire il trauma che ne riportai, un dolore insopportabile e un senso di orrore insostenibile.
    Alle tue riflessioni sull'atteggiamento dei polacchi verso Oświęcim, aggiungo un'ipotesi: forse si sentono tuttora responsabili, perché l'antisemitismo alberga ancora in molti polacchi, sono molti i segnali, anche recenti.
    D'altro canto, io, che non sono ebrea, una volta mi trovai impegnata in un'accalorata discussione su di un blog la cui titolare è ebrea e ha avuto in famiglia parenti prossimi rimasti vittime della persecuzione.
    Quel che mi spinse ad intervenire fu l'impronta nascosta, ma poi neanche tanto, del suo disappunto perché, a sentir lei, a parlare della tragedia ebraica avevano diritto pieno solo gli ebrei e la loro era stata e sarebbe stata per sempre la tragedia suprema, esemplare e insuperabile nel suo orrore, (riassumo e semplifico, forse in modo imperdonabile, un suo discorso ben più complesso e articolato, bada bene).
    Mi sembrò un eccesso, una sorta di censura ed estromissione che non riuscivo a condividere.
    Mi chiesi e mi chiedo ancora: possono il numero delle vittime o le condizioni storiche essere determinanti per creare una graduatoria delle tragedie? Questo a me pare tuttora un argomento improponibile.
    Alla blogger feci l'esempio, tra gli altri, degli armeni, il cui eccidio è stato ed è rinnegato, e non solo dalla Turchia.
    Mi credi se ti dico che avvertii nelle sue risposte un grande fastidio? quasi un rancore? Un po' come se dicesse: solo di noi si deve parlare( e qui, ti ripeto per l'ennesima volta, sto riassumendo e semplificando, anche perché la blogger cui mi riferisco non è certo una persona sprovvista di mezzi culturali ben oltre la media).
    Ecco, oggi mi ci hai fatto ripensare...

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