Covid o non covid, noi, arriveremo in Grecia…
Così cercavo di tenermi su, quando al tempo del lockdown riguardavo con scoramento l’itinerario organizzato in ogni dettaglio.
Meteore, Zagoria, Joannina e poi Lefkada.
Una settimana tra monti, città, villaggi, lago e fiume così come piace a me e l'altra al mare così come piace a lui, per non scontentare nessuno.
[lei dice in uno si è in pochi, in due si è in troppi]
Viaggio in nave prenotato a novembre, prezzo più che allettante ma non rimborsabile [il verdoniano Furio delle vacanze che è in me si mette in azione mesi e mesi prima della partenza]
Cancellare le altre prenotazioni non sarebbe stato un problema ma e’ desolante veder sfumare ciò che a lungo è stato covato.
Grande sospiro di sollievo alla notizia dell’apertura dei confini greci ai turisti dal primo luglio, un poco di rottura di cazz nel dover compilare i moduli di registrazione uniti all’ansia del tampone random (e se allo sbarco alla lettura del codice mi incolonnano tra i tamponandi? sicura sono di essere negativa, ma non ho mica piacere a trascorrere in autoisolamento le prime 24 ore - o peggio, se lo sbagliano e mi dichiarano positiva? marò, 14 giorni in un albergo covid a spese greche, un’esperienza – mi dice lei – ma non certo quella che voglio fare io)
E invece tutto è filato liscio, anzi liscissimo.
Nonostante, o meglio, proprio grazie al covid, a tre settimane dal ritorno (ah, il petulante frastuono della routine quotidiana!) posso con assoluta certezza affermare che è stata la vacanza con l’ indice di distanziamento sociale (e mentale) più elevato: tutti i luoghi goduti nella più assoluta tranquillità, senza file, senza folle, senza ingorghi.
Si comincia con il traghetto Brindisi – Igoumenitsa. Mai fatto un imbarco più veloce, due ore prima della partenza già in cabina.
Pochissimi i turisti, in verità, sia all’andata che al ritorno. Una nave traghetto piena di tir, di panze e di lingue slave.
Sbarco rapido, lettura rapida del codice e via (fiuuuuuuuuuu), verso la prima tappa.
Meteore.
La strada per arrivare a Kalambaka, o Kalampaka, è deserta. Vabbè che sono le sei del mattino, ora locale, ma davvero non si incrocia anima - auto viva. Pioviggina, il cielo è scuro, le meteore, giganti e irregolari cilindri di pietra, si stagliano all’orizzonte maestose e inquietanti.
Ai piedi della meteora su cui svetta il monastero di Agías Triádos c’è un sentiero di trekking che conduce sulla sommità.
La roccia è talmente irta e brulla che mi chiedo come si possa arrivare sulla vetta senza fare il freeclumbing. Non riesco proprio ad immaginare il primo anacoreta avventurarsi lassù, né l’inizio della costruzione dei monasteri.
Il sentiero è in un bosco fitto, il percorso è segnato da freccette rosse.
C’è un silenzio ovattato, interrotto da qualche abbaiare di cane che non si vede e dal mio respiro corto (mesi di Dad, condotta sul divano h14/24, hanno ottenuto il loro sporco risultato).
In realtà il sentiero, che si percorre in poco più di un’ora (i 40’ descritti nelle guide sono calcolati su spiriti agili) arriva a metà del viale lastricato che porta al monastero dal comodo parcheggio sulla strada ad anello che circumnaviga tutte le meteore.
Restano da salire le scale scavate nella roccia. Tante scale.
E in cima il portone chiuso.
Fortunatamente l’attesa è breve, qualcuno apre e scompare lungo un’altra scalinata.
Nel monastero fervono lavori di ricostruzione, manutenzione, rifacimento. Comprendo che quella che credevo una teleferica turistica, guardandola dal basso, è un montacarichi sospeso che trasporta materiali e operai.
Dall’altra prospettiva, dall’altra altura, in serata, due donne inviano al papàs solitario che annaffia il giardino, un gigantesco cocomero e dei sacchetti previa telefonata.
(neanche gli anacoreti sfuggono alla modernità)
Ma all’apertura vi sono solo i muratori impegnati con la betoniera, il bigliettaio, e un ragazzo che passa meticolosamente l’aspirapolvere nei locali del monastero.
E’ forse questa prosaicità che smorza l’interesse – in realtà già abbastanza limitato – per la visita dei monasteri.
Mi affascinano di più le torri di roccia, i ciclopici menhir di arenaria, espressioni dell’irruenza della natura con le sue variazioni improvvise in un più morbido paesaggio e le costruzioni umane che tentano di addomesticarla per arrivare al cielo: di come sono ora gli interni dei monasteri, visto uno, degli altri cinque (solo sei su ventiquattro sono stati recuperati dopo anni di abbandono) non mi importa molto.
[Le Meteore – termine che in greco significa sospeso in aria e che connota i centri monastici - sono patrimonio dell’Umanità, ma senza le rocce, questi monasteri lo sarebbero stati?]
Seconda tappa del viaggio è la Zagoria, una regione dell’Epiro.
Non ho mai amato i luoghi affollati e iperturistici, anche in tempi non sospetti.
“La vera Grecia” – mi dice l’impiegata dell’ufficio dell’Ente ellenico per il turismo a cui mi sono rivolta per un inghippo nella compilazione del modulo di registrazione per l’ingresso nel paese.
[Ripenso alle taverne della costa: meglio l’agnello che il pesce. La Grecia è come la Sardegna. Isola/isole di pastori]
La Zagoria è una zona a nord-ovest, verdissima, vicina all’Albania: i tetti di pietra delle case dei villaggi somigliano a quelli di Argirocastro.
Quanta frescura! Già la strada che conduce da Kalambaka alla Zagoria, verso Metsovo ha un aspetto alpino: abeti a tappezzare i versanti delle montagne.
Metsovo. Avrei dovuto inserirlo nell’itinerario. Si può viaggiare virtualmente quanto si vuole, 3D e satellite, ma la percezione reale dello spazio e dei luoghi si ha solo standoci dentro.
Delle strade strette, tortuose, prive di guardrail che collegano i villaggi della Zagoria sapevo, ma non immaginavo fossero, per alcuni tratti, davvero così strette e tortuose, quasi mulattiere.
Tanto meno immaginavo si dovesse attraversare un ponte di legno largo appena quanto l’auto, dall’aspetto tienimi che ti tengo, che avrei evitato anche stando a piedi.
A meno che il navigatore non abbia preso una gran cantonata e la strada meno comoda, facendoci provare il brivido del dove cazz stiamo andando.
I ponti di pietra per cui la Zagoria è famosa sono tanti. Alcuni davvero suggestivi, altri un po' scofecchiati, tutti vinti dalla natura, che ha ricamato tra i mattoni merletti di erba.
Acqua che scorre al di sotto dei ponti non ce n’è. Solo pietre, e pietre ed erba e boscaglia. Chissà in inverno. A cosa serve un ponte, mi chiedo, se non a collegare?
Eppure, questi ponti della Zagoria sembrano astratti, posizionati come draghetti a guardia delle montagne.
I villaggi sono distanti, tornanti e tornanti di strade accidentate.
Kipoi è il paese attorno al quale c’è il maggior numero di ponti. Su google map si contano 9 alberghi. L’impressione passeggiando per il villaggio è di abbandono: ci sono tante case in rovina, le stradine sono disconnesse e piene di erbacce, anche la chiesa sembra desolatamente trascurata, e gli unici edifici ben ristrutturati sono proprio gli hotel boutique (meno di nove, però).
Ma di turisti non c’è traccia.
Tranne i tre o quattro avventori, spiccatamente indigeni, che transitano nel baretto in cui facciamo sosta, non incrociamo nessuno.
O sono tutti a fare escursioni, parapendio, oppure…
Un tentativo di rinascita stroncato, forse non solo dal Covid.
Anche a Monodendri, da cui partono i percorsi di trekking per le gole di Vikos, ci sono più alberghi, b&b, lussuose ville vacanza che civili abitazioni.
Anzi, quasi non ci sono civili abitazioni.
Molti alberghi sono vuoti, delle tante taverne ne sono aperte solo due.
Al mattino, gli stormi che solcano il cielo e, ad ondate, si poggiano sui tetti di pietra delle case, sono tantissimi (assembramento di uccelli).
Dal balconcino posso guardare le montagne verdissime, gli uccelli, i tetti, e la preparazione al lavoro di muratori che tirano su materiali da costruzione in uno scheletro di casa.
A me non sembra un restauro, ma una costruzione ex novo modellata sulle tipologie edilizie più antiche.
Monodendri [ma anche Kipoi, e penso anche gli altri villaggi della Zagoria] è un luogo, non un paese: di ciò che un tempo fu, si propone il simulacro, elegante base d’appoggio per godere della pittoresca natura che, per fortuna, resiste alla violenza del tempo.
A qualche chilometro da Monodendri c'è la foresta di pietra: le formazioni rocciose sono davvero particolari, spuntoni di lastre sovrapposte, molto affascinanti.
Ancora qualche chilometro e si arriva ad un punto panoramico dove è possibile ammirare dall’alto l’ampiezza della gola di Vikos, la più profonda d’Europa. Una vertigine.
La passeggiata che conduce dal parcheggio al belvedere è serafica: alberi ombra fresco, silenzio cicale e latrati di cani invisibili.
Anche qui non si incrocia nessuno.
Mi sembra di avere la Grecia tutta per me.
Chiusa la parentesi montagne, prima di fiondarci al mare, uno sguardo a Ioannina, la città principale dell’Epiro.
Si sporge sul lago Pamvotida, sul quale sembra galleggiare l’isola senza nome, indicata con l’appartenenza, isola di Giannina.
Cominciamo da qui. L’imbarco dal pontile di Perama, paesello sulla costa opposta, a poche bracciate dall’isoletta, non è più attivo. L’unico modo per raggiungere l’isola, a meno che non si possegga una barca, è il battello che parte dal lungolago di Giannina.
Una quindicina di passeggeri, mascherina e distanziamento.
Una corsa ogni ora, 10 minuti di traversata.
Sull’isola c’è un piccolissimo borgo, con tante taverne e negozietti di souvenir; ci sono una mappata di monasteri e chiese (che lo dico a fare, manco per l’anticamera del cervello mi passa l’idea di entrarvi), e una strada che corre intorno al perimetro.
Opto per la passeggiata, un modo per guardare le rive del lago da tante prospettive.
Ormai è un leitmotiv.
Non si incrocia nessuno, solo un gruppo di anatre che manco a sfruculiarle danno confidenza.
Ci sono i pescatori, ne sono segno le reti e le barche ormeggiate tra i canneti.
E’ qui che assaggio per la prima volta i gamberi di fiume. Assomigliano agli scampi, ma il sapore è molto più delicato.
Dal battello (o traghetto? Battello mi pare più adatto, viste le dimensioni) la città di Giannina è un ondulato nastro verde sul quale spicca la torre del minareto.
Il centro storico è quasi tutto racchiuso tra le mura del castello, il Kastro, uno sperone adagiato sul lago.
Tuttavia, di storico c’è ben poco dentro le mura: passeggiando tra le viuzze, tra le case a due piani recentemente ammodernate, sembra di essere in una borgata extraurbana dell’Italia del dopoguerra, non dentro un castello.
Solo sulla modesta altura dove un tempo sorgeva la vera residenza di Alì Pascià Telepeni - lui, proprio lui, il leone di Giannina che anche in Albania disseminò castelli e fortezze - restano tracce del passato: ma la moschea è un contenitore vuoto, la tomba di Alì è una ricostruzione, il museo bizantino e quello degli argenti – in cui siamo gli unici visitatori - sono lontani miglia e miglia dalle moderne concezioni museali.
La bellezza di Giannina è nel suo placido lungolago e nel dedalo di stradine appena fuori dalle mura, puntellate di negozietti, taverne, baretti, ristorantini dove, alleluia, si può magnare a quasi tutte le ore.
Luogo di pericolosissimi assembramenti, pieno di gggiovani, di movida.
A Perama, il paesino dell’altra sponda, vi sono le grotte, tra le più profonde della Grecia.
La visita è solo guidata (in inglese/greco. La guida snocciola informazioni prima in una lingua e poi nell’altra). Non siamo – mannaggia – soli, stavolta.
Il gruppo conta una ventina di persone, mascherina obbligatoria, e la risalita, nonostante la temperatura freschissima, è fatta in apnea: una mancanza di fiato stratosferica che mi fa quasi immediatamente dimenticare la bellezza delle stalattiti e stalagmiti.
Montagne, città, lago.
Mancano il fiume e il mare.
Nei pressi di Gliki, un minuscolo paese tra Giannina e Preveza, il fiume Acheronte accoglie con amene anse e con le sue gole un cuofano di ospiti.
Era stato il rimando culturale ad attrarmi: Acheronte, il fiume che porta al regno dei morti, all’Ade, al profondo Inferno.
E invece.
Il paesaggio è bucolico - chiare e freschissime (anzi ghiacciatissime) acque – e il contorno turistico: bancarelle di souvenir, taverne coi tavoli quasi nell’acqua, kajak da affittare e gommoni su cui farsi portare, passeggiate a cavallo o con le funi tra gli alberi.
Non riesco a compenetrarmi nell’immaginazione degli antichi.
E’ pur vero che non sono riuscita ad addentrarmi nelle gole, avrei avuto bisogno di una muta da sub, o quanto meno di galosce per camminare nell’acqua gelata.
(c’è chi fa il bagno, pure con la capa sotto. Marò, che coraggio. Mi sa che sono diventata anziana)
E comunque la sosta – mitologia messa da parte – vale davvero la pena, anche solo per magnare la trota, presa nuotante dalla vasca e passata sulla brace.
Dopo una settimana tra monti e laghi e città, è tempo di andare al mare.
Lei mi dice che già il papiello è troppo lungo.
Il racconto prosegue cliccando qui.
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