L’estate dello scorso anno è stata l’unica in cui non c’è stato neanche un giorno di mare. Niente sole, niente caldo. (La fredda estate nei Paesi Bassi).
Quest’anno, la nemesi.
Creta.
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“Creta
è un’isola enorme, non la si può girare in una sola volta, meglio dedicarsi
all’ovest, o all’est, o al sud, e tornare, tornare”
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“Eh,
se ti piace mettere le bandierine allora passa pure ore e ore in macchina, non
ti rendi conto delle distanze e delle strade”
-
“Bisogna
avere lentezza, per godere lo spirito cretese.”
Anche
a Procida si dovrebbe tornare, per
scoprire angolini nascosti sfuggiti alla prima vacanza; i viaggi in macchina hanno un perché,
soprattutto se fatti su strade lente e panoramiche; lo spirito cretese non
esiste: Tò Hellenikòn, l’identità greca è comune all’Epiro e alla Macedonia,
alle isole del Dodecanneso e delle Cicladi, alla Tessaglia e anche a Creta.
Di tutti i consigli iterati enne volte nei forum di viaggio e sulle pagine social, me ne sono fregata altamente e in quindici giorni, ho toccato sud, ovest, nord ed est: Heraklion, Kerames, Moni Chrisoskalitissis, Chiana, Rethimo, Myrtos, Kato Zakros e ritorno all’aeroporto di Heraklion.
L’itinerario
tiene conto dei pernottamenti.
Oltre ai noti disco di Festos e all’affresco della taurocatapsia [molto più piccolo di quanto lo immaginassi, molto ricostruito], il museo contiene (contiene, sì. È un museo molto tradizionale, poco più di un contenitore) oggetti di straordinaria bellezza e inusitata modernità, come la coppa ritrovata a Festos raffigurante tre figure femminili stilizzate o la scultura della bimba su altalena ritrovata a Agia Triada.
Dal museo fino alla rocca veneziana è una breve passeggiata; sulla via del ritorno, uno sguardo agli altri luoghi topici segnalati come “architetture notevoli” della città: la loggia, la fontana Morosini e la fontana Bembo. Sono memoria di dominazione, e non mi entusiasmano più di tanto.
Sento
di aver già dato il tributo al versante cultura: tra le alternative della sosta
intermedia tra i pernottamenti previsti dal mio itinerario, palazzo di Cnosso o
palazzo di Festos o baia di Matala, opto senza alcuna incertezza per Matala.
(il
solo pensiero di scarpinettare tra millenarie assolate pietre roventi mi
produce l’eritema)
Creta
dovrà essere aria, terra, fuoco e acqua.
Soprattutto acqua, mare.
Più
che i siti archeologici, ho da spuntare le spiagge must: Elafonissi, Preveli,
Triopetra, Vai, Xerocambos.
Mi
manca il fisico per affrontare le salite
su terreni accidentati e lo spirito per i barconi affollati di gente, per cui
su Balos ho messo croce sopra e amen.
Qualche
decina di anni fa Matala doveva essere davvero ipnotica: non mi meraviglio che
gli hippies delle grotte ne fecero case.
Ora l’atmosfera peace e love resiste nei tavolini colorati dei milleuno taverne e baretti, nelle stradine dove sopravvivono i disegni del Matala street painting, preludio del matalabeachfestival.
Vista
l’orda di turisti, c’è poco di autentico. Il mare però è autenticamente trasparente.
Il
viaggio cretese comincia davvero da
Matala a Kerames, anzi, ad un monolocale
sul mare ad otto chilometri dal borgo di Kerames.
Una
sessantina di chilometri percorse in due ore e tremila patemi d’animo.
Google
maps non si rivela un sussidio utile: dopo, molto dopo, si è capito che le
strade che propone come scorciatoie sono praticabili solo dalle capre.
Inserita la destinazione, comincia il percorso su serpentine lungo le quali non si incontra né anima viva né anima morta, o su sterrati tra il fianco della montagna e il precipizio.
Straordinario paesaggio, se non si avesse il catorcio che arranca sulle salite accompagnando la fatica con un rumore da aeroplano, se il vento caldo non raggiungesse i 43°, se non ci fosse il pensiero fisso maròesesi fermalamacchinasoprastopizzodimuntagnacomesimettenome.
Ma
ci si abitua. Mai alla bellezza, piuttosto alle straducole e ai tornanti. E se
si ferma la macchina qualcuno verrà.
La
terrazza del monolocale incarna la mia idea di vacanza: essere sgombro, libero,
svuotato dall’ordinario. Nei dintorni non ci sono negozi, finestre, persone,
macchine. Davanti agli occhi solo il
mare, le piante, le montagne, il cielo.
In
lontananza, in un’altra baietta, ad Agia Fotini, una sola taverna raggiungibile
a piedi.
Nella
spiaggia sotto casa non c’è mai nessuno.
Sembra di possedere una discesa privata.
Beatitudine.
Ma
si è ad un tiro di schioppo da alcune delle spiagge della lista e non le si va
a vedere?
Preveli
beach, attraversata dal fiume sulle cui
sponde crescono le palme.
Ci si arriva via mare, con i taxi boat, o via terra con non indifferente camminata, da ovest, parcheggio sulla cima della montagna e discesa superpanoramica a piedi (che poi diventa tutta salita al ritorno) , da est, parcheggio sulla spiaggia da cui parte un sentiero – a tratti scalinate di roccia - , prima in salita e poi in discesa, meno panoramico ma sicuramente più breve.
Nonostante
l’arrivo in spiaggia alle 9 del mattino,
mi sono chiesta se valesse la fatica (una spugna di sudore, con
passeggiata breve).
Sull’acqua,
anche se non sono ancora arrivate le barche, c’è una velatura d’olio.
Molto meglio Triopetra. La spiaggia è lunghissima, solo una piccola parte è attrezzata con ombrelloni. Verso i faraglioni a fettine (così mi sembrano i tre scogli che le danno il nome) l’acqua è davvero cristallo.
Ma
ancora più bella è Ligres.
Non c’è acqua dalla cascatella che dovrebbe finire a mare, ma ci sono pace, silenzio, un ventariello dolce … e all’estremità una parete di sabbia sulla quale vorrei salire per scivolare come se fosse una duna nel deserto.
Elafonissi è a sud ovest di Creta. Da Paleochora, sempre sud ovest, che dista in linea d’aria pochi chilometri, non c’è strada diretta: occorre risalire a nord e poi scendere di nuovo. Da Kerames sono tre ore e più di viaggio. Indispensabile una sosta.
Georgioupolis.
Avevo visto delle incantevoli foto di una chiesetta in mezzo al mare, raggiungibile percorrendo un sentiero di lastroni in pietra.
Agios Nikolaos Chapel. Vista. Incantevole. Però… quanti chitemmuort scappati su quella striscia di rocce non li ho contati. Soprattutto la parte centrale della “stradina” è fatta da scogli scivolosi, muschiosi, sui quali le onde sguazzano. Mi sono sentita un elefante con le vertigini. Gli attacchi di sudore freddo hanno raggiunto picchi stratosferici, così come quelli di invidia per chi con gli infradito saltellava di qua e di là manco fosse farfalla o libellula.
Moni Chrisoskalitissis è un piccolo agglomerato di case sparse che ruota attorno al monastero che non ho visitato, ma ammirato al tramonto dal terrazzino del monolocale.
Alle
8 del mattino non c’è nessuno: la spiaggia, anzi le spiagge, perché tante sono
le calette che costituiscono la laguna
dell’isolotto di Elafonīsi, hanno venature rosa e sabbia sottile e
morbida; l’acqua è bassa e calda.
Si
fa il bagno – non si nuota, non ci si rinfresca: si fa proprio il bagno, un
ammollo lunghissimo in una gigantesca e luccicante vasca marina.
Della gente che arriva a frotte non me ne rendo conto fino a quando non vado via. Ma la laguna è grande, nell’acqua c’è spazio per un esercito.
Vicinissima ad Elafonissi c’è un’altra spiaggia top, Kedrodasos, la spiaggia coi ginepri fino al mare. Ne faccio a meno. (Così come di Falassarna)
Mi
innamoro invece della comoda e vicinissima Voulolimni – un “cratere”, una
piscina naturale - dove gli abitanti di Moni Chrisoskalitissis si
intrattengono, le vecchiette in acqua a fare gli inciuci, i vecchietti sugli
scoglietti a fare gli inciuci.
Anche
ad Aspri Limni, altra insenatura quasi chiusa, si sta benissimo. Ci sono sette
ombrelloni e alcuni lettini gratuiti,
a disposizione di chi prima arriva. Il
giorno in cui ci sono stata io sono bastati per tutti.
Si risale a nord. Chiana, o La Canea. Solo un pernottamento, in un albergo sulla collina che ha il notevole vantaggio di avere una navetta che porta al centro storico della città (no stress parcheggi, please)
E’ carina la zona del porto vecchio: un artista di strada suona la chitarrina e balla su un filo, una folla stratosferica fa lo struscio, il cuofano di ristoranti sono tutti zeppi di gente che magna, il super yacht – Jewel – sul cui ponte passeggia una donna in chador e sul cui ponte dopo chiacchierano ragazze in divisa dalla fisionomia orientale spicca tra i suoi fratelli più sfortunati, un calesse trainato da cavallo passa vicino alla moschea ora luogo di mostre e eventi.
Ma è carino il lungomare del porto vecchio, per la passeggiata di una sera.
Tra Chiana e Rethimo la sosta è al lago Kournas.
Superato il burdello degli affitta pattini e canoe, dei negozi di souvenir, all’ombra degli alberi, con il sottofondo musicale delle cicale, c’è la pace. E l’acqua del lago è calda e trasparente, non fanghigliosa, la terra sembra morbida sabbia.Imperdibile, soprattutto dopo aver constatato la riminitudine del lungomare di Rethimo, che in compenso ha dei vicoletti deliziosi. Si ha la sensazione di perdere l’orientamento, aggirandosi tra soffitti e pareti di fiori e finestre decorate.
Ad
una mezzoretta dalla cittadina, uno dei monasteri più importanti di Creta
(forse il più importante)
Arkadi.
Nel 1866, alcune centinaia di persone, confortate dalla benedizione del prete, saltarono in aria dando fuoco alla polveriera pur di non cedere all’assedio degli ottomani. Questa “resistenza”, permeò le coscienze occidentali e portò le potenze europee del primo Novecento ad acconsentire all’unificazione dell’isola con la madre Grecia.
Si arriva tardi, secondo google dovrebbe già essere chiuso [vabbuò, guardiamo gli esterni]. E invece è ancora aperto, il bigliettaio ci fa entrare senza neanche farci pagare. C’è ancora qualcuno che gironzola. Il monastero mi ricorda quelli spagnoli, non so perché. Più che la chiesa (mi sembrano tutte uguali le chiese ortodosse, un horror vacui di icone fisse e lampade e lampadari) e gli spazi accessibili, più che i totem del ricordo (l’albero che ha ancora conficcato il proiettile), vorrei vedere ciò che non si può: le celle dei sette monaci che ci vivono, ad esempio. E sapere come trascorrono il tempo resistendo all’invasione dei turisti.
Dalla
costa nord si riscende di nuovo al sud, per arrivare all’estremo est.
Lungo la strada, il villaggio di Amiras ospita uno dei tanti memoriali delle atrocità tedesche subite dai cretesi durante la seconda guerra mondiale. L’urlo del vento fa da colonna sonora.
Tra Myrtos – un paesiello proprio sul mare, sonnacchioso e lento - e Ierapetra (bruttarella non poco), mi impressiona la quantità enorme di serre. Teli di plastica bianchi hanno preso il posto della terra nuda. Cerco di capire cosa nascondano, ma solo talvolta riesco a intravedere qualche albero, delle foglie. Quasi tutti sono tendoni vuoti.
Il
tratto di strada che si affronta per arrivare all’ultima tappa del viaggio, da
Makrys Gialos a Kato Zakros è il più
fascinoso.
In un punto X, sulle montagne [la distanza tra i villaggi è siderale, tra un minuscolo assembramento di case e un altro non ci sono che rocce, cespugli e olivi] , sembra di essere entrati nel regno di Pan. Sul ciglio della strada, capre, caproni, pecore.
Tantissimi. E tantissimi sparsi tra i cespugli e le rocce. Mi sento un’intrusa, mi pare quasi di violare qualcosa di ancestrale.
Kato Zakros è un’insenatura tra le montagne. Solo qualche taverna sulla spiaggia, neppure un minimarket. Un luogo di assoluta tranquillità e pace, senza folla.
Anche a Kato Zakros c’è un sito minoico, privo di visitatori. (Tutte le vestigia, ovvero qualche pietra, è a vista; a che serve pagare il biglietto per entrare nel recinto? Vi saranno un paio di pannelli esplicativi in tutta l’area) Vi è anche l’ingresso per la Gola dei Morti, così chiamata perché è stato ritrovato un luogo di sepolture minoico.
[A
proposito di sepolture. Nel museo di Heraklion vi è un grande vaso con uno
scheletro rannicchiato in posizione fetale. Anche questo sepolcro viene da Kato
Zakros. Il morto nel vaso di terracotta, preambolo al ritorno nel grembo della
madre terra.]
Della
gola dei Morti ho percorso solo un centinaio di metri, giusto il tempo per
sentire l’eco della voce tra le montagne e provare la sensazione di sentirmi smarrita.
Da Kato Zakros ci vuole quasi un’ora per arrivare a Vai beach, un altro must cretese, la spiaggia con il più esteso palmeto d’Europa. Bellissima.
Però.
Non è tanto un peccato che sia interdetto l’accesso – le palme sono rinchiuse dietro staccionate, non è più possibile passeggiarvi nel mezzo – quanto che ne sia interdetta la vista: file di ombrelloni, con le pagliarelle e pure a baldacchino, per chi ha il portafoglio largo, privano lo sguardo di una meraviglia che pure ha diritto di essere preservata dal turismo selvaggio.
Fortuna
che anche qui c’è un’ampia zona di spiaggia libera dove almeno fino alle undici
si può stare larghi come pascià.
E
che mare incantevole!
Kato
Zakros è un buon punto di appoggio per raggiungere le spiagge di Xerocambos:
tante calette tutte con acqua cristallina, poca gente, facile accesso.
Meravigliosa è argilos beach. Le pareti rocciose sono ricche di argilla, con la quale ci si può impiastricciare e fare una seduta di beauty therapy assolutamente naturale e gratis.
E’
un pochino laborioso sciogliere le rocce nell’acqua, ma proprio all’inizio
della spiaggia vi è una grande pietra cava nella quale è possibile raccogliere
l’argilla già pronta per l’impacco.
Di
tanta bellezza non ci si sazia mai.
Ma
le vacanze finiscono, si deve ritornare.
Da
Kato Zakros ad Heraklion ci vuole tempo, più di 3 ore. Sulla costa nord, la
strada veloce con tante automobili e gli agglomerati urbani mi riavvicinano
alla “normalità”. Gli edifici non finiti, i tanti finiti e abbandonati – più di
un resort ho intravisto tra Sitia e Malia completamente in malora, mi
intristiscono: modernità come spreco.
Restituito
il catorcio all’agenzia di noleggio, all’aeroporto si paga lo scotto di due
settimane di tranquillità: una bolgia infernale di persone e valigie, file
dovunque, rumore. Non c’è un angolo dove sedersi. Ore di attesa per l’imbarco
in una situazione di surreale affollamento.
La
vacanza è davvero finita.